Le file d’attesa e la modalità empatica
Ho impiegato anni, oltre a un bel po’ di terapia,
meditazione, Xanax (e altro su cui non mi dilungo), per riuscire a riaffrontare le
code, che per amor di precisione sarebbe esatto chiamare file d’attesa.
Partiamo da un assunto universale: è facile odiare le file,
capita a tutti; fanno perdere tempo. Pare. Ma ci sono giorni in cui non hai
nulla da fare di così importante. Il movente non regge.
Allora analizzi la situazione e trovi motivazioni ben più
valide.
Vi farò un esempio non troppo datato. Fresco fresco
non ce l’ho perché sono in fase di recrudescenza della fobia sociale, ma ci sto
lavorando.
Qualche giorno fa sono andata a ritirare un documento in un ufficio collocato in un'ex scuola. Non vi parlerò delle pareti che sembravano sobbalzare al mio
passaggio: è un disturbo visivo che ha una sua spiegazione medica legata agli
attacchi di panico, inutile e triste dilungarci su questo.
Davanti all’aula (o ex aula, che comunque aveva
ancora i connotati di locale scolastico, lavagna compresa) ho trovato una
discreta coda, che per i miei parametri era propedeutica alla fuga.
Io non tentenno, io scappo: sono un tipo deciso.
Accanto a me si è incolonnata una vecchina,
bel viso triste, quel tipico di corporatura esile che si ritrova solo in certe
persone anziane (i giovani, se è il caso, sono magri; non esili).
La coppia davanti a me la saluta con entusiasmo.
E
fin qui tutto bene, non fosse che do nell'occhio perché oscillo da un piede
all'altro per placare l'ansia da fila. Ma ormai abbiamo deciso di fregarcene
dei giudizi degli altri, quindi va tutto benissimo.
- Oggi è venuta sola, eh? Ha lasciato il marito a
casa – dice con entusiasmo la signora dotata di consorte.
Gli occhi della vecchia si riempiono di lacrime e
io mi ripeto il mantra "non
guardarla, non guardarla".
La coppia davanti a me pare sinceramente confusa.
Io li farei andare dietro la lavagna (c'è la lavagna, l’ho già detto: non
sarebbe un atto impossibile).
- Ma è
successo qualcosa? - Chiedono i due che, a questo punto, seppellirei sotto la
lavagna.
La vecchina attacca a piangere e io sento l'impulso
di raccontare che da giorni ho un dolore al petto, accompagnato da respirazione
corta, che mi preoccupa parecchio. E invece dico "certo che per essere maggio fa freschetto".
Non mi considerano. La perversa curiosità batte i
temi meteorologici; quanto vorrei vivere in Inghilterra! Posto dove la gente si
fa i fatti suoi e adora parlare del tempo per restare sul vago.
Attacca un racconto straziante fatto di morte, dolore,
solitudine, disperazione che non passerà mai.
Il dolore al petto aumenta e si dirama verso le
braccia.
Se proprio
devo essere stroncata da un infarto questo è il momento giusto, penso.
Mi ripeto,
variando il tema del mantra precedente, "non entrare in empatia, non entrare in empatia".
Intanto
oscillo con un’angolazione pericolosa e mi chiedo perché la file resti ferma
così a lungo; in certi frangenti dimentico quanto l’ansia stravolga anche le
percezioni temporali… tuttavia non ci si muove da un’eternità e qualche minuto.
Che dentro
qualcuno si sia sentito male? Ecco salire il panico; perché è lì sempre pronto,
basta dargli una dose di dolore altrui e una parvenza di insufficienza
coronarica. Non chiede altro.
Quindi, come
accade spesso, mi dissocio ed elaboro un'articolata legge (che sarebbe da
votare subito alla Camera e farla passare d'ufficio al Senato) che regolamenti
gli argomenti di conversazione delle file, o quantomeno che preveda una corsia
preferenziale per chi ha dei dolori dentro non ancora adeguatamente elaborati.
Finalmente ce la faccio, entro nell’aula (che ormai,
nella mia mente, è uno stanzone d'ospedale – gli ospedali, per me, incarnano il
concetto di fobia nel suo più elevato significato). Faccio quello che devo fare,
appongo una firma che mi esce identica al tracciato dell’elettrocardiogramma,
di cui peraltro avrei urgente bisogno; poi fuggo, correndo con una tachicardia
che raggiunge livelli parossistici.
Giungo alla conclusione che non sono le file a essere ansiogene, è la gente infelice e l'empatia a renderle tali.
Toccherebbe nascere e crescere concentrati su se
stessi. Questa è la verità.
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