Il tentennamento dell'ironia e la ricerca di solitudine



Mi spiace sempre dare brutte notizie. Di solito delego l'incombenza ad altri. Ma a volte non c'è nessuno nei paraggi a cui girare la patata bollente. Come ora.
Quindi, mi duole dirvi che non sempre si riesce a vedere il lato divertente delle cose, perché ci sono cose che proprio non ce l'hanno o comunque la tengono ben nascosta.
Le giri e le volti, le guardi dall'alto e dal basso, provi persino a toccarle con un legnetto da debita distanza. Niente.

Tenti la via dell'autoconsolazione dicendoti che è un fenomeno passeggero, un momentaneo calo di pressione dell'ironia causato dalla canicola, che è solo ed esclusivamente colpa tua. 
Invece oggi devo ammettere che accadono cose da cui proprio è impossibile cavare qualcosa di buono, persino facendo scendere in campo il sarcasmo.

Non deve necessariamente trattarsi di un evento grave, a volte è sufficiente unire i puntini delle grane altrui per ottenere un disegno su cui non riesci a intervenire per renderlo almeno un po' ludico.
Il guaio è proprio qui: è più facile fare ironia sui propri accidenti che su quelli altrui.
Il dolore degli altri si presta solo all'ansia e, al massimo, puoi tentare di ridere su quella, ma ne esce un sorriso amaro che richiede grandissimo sforzo.

Ciò mi porta a riflettere su un altro fenomeno interessante: la tendenza a isolarsi.
Io sono una persona parecchio solitaria, o almeno una che cerca di ricavarsi un discreto spazio di solitudine. Da sola riesco a trovare quiete e un briciolo di divertimento.
Ma non sono sempre stata così, anzi.
Prima del panico e di tutto quanto si è portato dietro, ero un animale decisamente sociale. Quell'atteggiamento scriteriato e per nulla lungimirante, mi ha condotta verso la strada di solide e durature amicizie. E, percorrendo quella strada, mi sono imbattuta in sentimenti d'affetto (no, direi amore) che non riesco a scrollarmi da (di?) dosso.

Ora, oltre ad avere evidenti difficoltà nella gestione delle preposizioni, mi trovo a non riuscire a superare le ansie altrui, ad applicarvi l'autoironia... che, per definizione, è la capacità di ridere di se stessi, non di terze persone.
Così, scatta ancora più prepotente la brama di vivere in una bolla piccina, dove la capienza massima prevede un solo essere vivente.
Non ci si riesce, non si scova un architetto in grado di progettarla, quindi l'ansia sale e porta in dono pensieri un filo ossessivi e, in ogni caso, tendenti alla catastrofe.
E capisco che è la malattia (disturbo, chiamiamola come ci pare, tanto cambia niente) a cercare la solitudine, non io. 

Ci sto meditando. Datemi un attimo.
Tagliamo la testa al toro: sono io malata (disturbata; idem come sopra) a puntare all'eremitismo estremo. E mi riesce malissimo, pieno di difetti di produzione.

C'è poco da fare. 
Non è vero, c'è un mucchio di roba che si può fare. Si può imparare ad amministrare i guai altrui guardandoli da una prospettiva diversa da quella dell'ansia (che ha occhi ciechi); si può tentare di mettere un freno all'empatia, cioè lasciarla pascolare per un po' ma poi chiuderla nella stalla per la notte e godersi un bel film senza tendere l'orecchio per avvertire i muggiti lontani.

Onestamente io non so, non mi sono fatta un'idea precisa di come reagiscano le persone "normali" ai guai degli altri. Bè, so che qualcuno se ne frega altamente, ma tenderei ad escludere la possibilità di emulare questa condotta, che peraltro tanto normale non mi pare.
Credo, sospetto, spero, che esista una via di mezzo tra il menefreghismo e l'ansia esageratamente partecipe. 
Spero.

Ringrazio per le foto gratuite e libere da copyright (che uso spesso) il sito Pixabay.com. Grazie ragazzi, siete meravigliosi. 

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