L'ansia da questura e riflessioni sugli anfibi
Da qualche tempo (due anni?) ero assillata dal problema della carta d'identità.
Dispersa in un cassetto, nel doppiofondo di una borsa, abbandonata in una fotocopiatrice, vittima di un sistema d'autodistruzione? Non lo so.
So che un giorno c'era e quello successivo era sparita.
Capita, non è una tragedia, al massimo la si può annoverare tra gli spiacevoli contrattempi... se io fossi una persona "normale".
Essendo invece un individuo "peculiare" (poi cercherò un sinonimo più soddisfacente), lo smarrimento del documento si è trasformato in una fonte d'ansia, un pensiero costante nell'angolino della mente con il meccanismo di un orologio a cucù (pare non richieda l'accento, io lo lascio perché mi suona meglio). Tra l'altro non ho simpatia per l'uccellino che si manifesta allo scoccare dell'ora, così come per le paranoie.
Qual è il problema? L'uso del singolare è segno d'ottimismo. C'è la fila all'anagrafe, ma soprattutto c'è da andare a fare denuncia.
Non ho nulla contro le forze dell'ordine (avevo scritto "forse", cambio di consonante, lapsus interessante)... oddio, in un mondo ideale (il mio mondo ideale), in estate i poliziotti girerebbero con le infradito al posto degli anfibi e il ventaglio in luogo dello scudo; ci sarebbero meno conflitti, loro sarebbero più felici (gli anfibi fanno male agli alluci, scaldano come forni, lo so, li portavo) e la gente tenderebbe a guardarli con minore timore (le infradito fanno quell'effetto).
Dicevo, non ho nulla contro polizia e carabinieri, ma le divise mi mettono a disagio (anche il camice del medico) e non riesco a stare in una stanza con le grate alle finestre, non ce la faccio, è più forte di me, tendo a scappare. E scappare davanti ai tutori della legge crea sempre momenti di tensione e appigli per indagare su eventuali precedenti penali.
Ieri ne parlavo con la mia psicoterapeuta, donna eccezionale (non scherzo). Abbiamo indagato sulla questione, l'ansia ha toccato vette interessanti.
Però, tornando a casa, sono passata davanti a una stazione di polizia: cancello altissimo, grate alle finestre, da fuori non aveva l'aspetto di un luogo ameno.
Mi sono fermata lì davanti a osservare l'architettura dell'edificio e non ne ho tratto conforto.
I pensieri erano, a grandi linee, questi: mi terranno minimo un'ora, mi fisseranno con aria torva appena inizierò a iperventilare, non potrò scappare dalla finestra, sul computer apparirà la scheda segnaletica di una mia omonima (latitante) che ha sterminato i partecipanti a un pellegrinaggio, non tornerò più a casa. C'era anche altro, ma al momento non riesco a ricordare ogni singola insensatezza.
Poi mi sono detta "vuoto mentale, entra, fa' quello che devi fare, esci. Chi se ne frega di tutto il resto".
Il "chi se ne frega" è un mantra potentissimo. Per chi non l'avesse già sperimentato, è da provare.
In dieci minuti era tutto finito. Dieci minuti in cui ho fissato le sbarre alla finestra, ma non si può pretendere la perfezione. Si muovevano, eh. Giuro che le sbarre si muovevano, seppur solo nel mio campo visivo compromesso dall'autosuggestione.
Tutto bene.
Tra un anno o due andrò anche nell'ufficio competente dell'anagrafe. Forse anche prima.
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