Il buon panico si vede dal mattino

Il cielo dentro
Mio nonno riusciva a prevedere le mutazioni climatiche basandosi sull'intensità dei dolori dei calli ai piedi; inoltre, grazie al nervo sciatico sapeva dire se la pioggia sarebbe apparsa in serata o nel pomeriggio seguente.
Ricordo che imbastiva delle diatribe con la tv; nello specifico con il Colonnello Bernacca, un uomo dall'aria mite ma assai professionale. E in effetti, i suoi calli battevano ai punti le complesse analisi del meteorologo. Sempre.

La genetica non concede spazio d'errore e, pur non avendo ancora ispessimenti della pelle che mi consentano una carriera nella previsione del tempo, io so con certezza, fin dalle prime luci dell'alba, se durante la giornata si presenterà un attacco di panico degno di nota. 

Lo sento al risveglio, anche se se ne sta acquattato in un angolo remoto della mente, trattenendo il respiro per non farsi scoprire.

Nessun suggerimento dal mondo onirico: troppo facile, ci riuscirebbe chiunque e i miei sogni raramente sono così angoscianti da preludere a una giornata costellata dall'ansia in eccesso.
No, l'allarme segue schemi più raffinati, ma pur sempre schemi e per questo ormai prevedibili.

Nei giorni a rischio, la radiosveglia non riesce a tenermi concentrata su quanto dicono i conduttori del programma che ormai mi fa alzare da anni (Il ruggito del coniglio: è divertente e rilassante, fa pensare che il mondo sia un luogo allegro).
Il sintomo seguente è la riluttanza a mettere un piede fuori dal letto. Ho già il fiatone e devo concedere qualche minuto alla respirazione controllata.

La bocca è parzialmente secca e lo stomaco rimanda una netta sensazione di nausea. Da sempre non faccio colazione e questa è una pessima abitudine. Ma il fatto di non avvertire neppure la tentazione di accendere la prima sigaretta mi mette in allarme.

Quindi, inizio a osservare i pensieri, che sono tetri e variamente apocalittici. Non importa se quel giorno devo fare qualcosa di tensivo o possa permettermi di organizzare la giornata come mi pare e piace, le immagini che rimbalzano in ogni emisfero cerebrale compongono un film tragico.
Insomma, sento l'imminenza di una sciagura e inizio a preoccuparmi per le persone a cui voglio bene (una alla volta o in gruppo, dipende da quanto sarà intenso l'attacco), per le mie gatte, per il mondo, per me (in forma d'ipocondria).

Mi ripeto come un mantra che non sta accadendo nulla di grave, che non esiste alcun segno dell'apocalisse, che è tutto frutto dell'immaginazione deviata dall'ansia. Visualizzo il luogo tranquillo, il mio rifugio: mare, spiaggia deserta, cespugli di lavanda. Cerco di sentire il profumo della lavanda; avverto un olezzo fecale.
Giornata di merda, c'è niente da fare.

A questo punto tento di tamponare, posticipare, annientare, l'inevitabile con una benzodiazepina che, di norma, ingollerei più tardi.
Trascuro la tachicardia, fingo che l'ipotetico infarto sia una faccenda che non mi tocca, sorrido controvoglia, guardo la statuetta del Buddha sul cassettone e gli do il buongiorno. Ma soprattutto, devio la conversazione tra me e me su argomenti che esulino la previsione dell'attacco di panico, tanto per non cadere vittima della profezia che si autoavvera (da Wikipedia: In psicologia, una profezia che si autoadempie si ha quando un individuo, convinto o timoroso del verificarsi di eventi futuri, altera il suo comportamento in un modo tale da finire per causare tali eventi).

Nonostante i miei sforzi, e quelli dell'industria farmaceutica, l'attacco di panico arriva. Può impiegarci ore, portarmi persino a pensare di essermi sbagliata e averla scampata, ma entro le 24 ore arriva con il suo giubbotto antiproiettile; e chi lo ammazza quello.

Lo so che può sembrare fantastico prevedere un evento traumatico (e il panico lo è) con un certo anticipo, ma posso garantire che spesso la mia mente mi concede anche l'effetto sorpresa; in questo caso, l'attacco è meno dirompente, più rapido, insomma non si è preparato a dovere.

Oggi è giornata. Per dire.



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