Depressi allegri



“Io penso che questa situazione richieda che qualcuno faccia un’azione assolutamente futile e stupida… Si tratta solo di stabilire quale”

da Animal house


Quando gli opposti s'incontrano ha luogo un big bang da cui nasce un nuovo mondo. Purtroppo non posso garantire che si tratti di un mondo vivibile, ma questa è un'inezia.
Così è anche per gli stati d'animo.
Non è un lavoro facile; è proprio un lavoro, richiede impegno, dedizione e una costanza non da poco.

Premetto che inizialmente ero una depressa triste. Mi aggiravo per casa, e anche fuori, in pigiama e anfibi, non tradendo una scarsa igiene personale solo perché ho la fortuna di sudare esclusivamente in casi eccezionali, quali cataclismi, caldaia impazzita che fa partire i caloriferi in luglio stabilizzandoli sui 42 gradi (lì traspiro pensando alla bolletta del gas, non per altro), e capatine in ospedale per lavoro o questioni personali.
Avevo la camminata che, per amore dell'etimologia, è errato definire "camminata". Più che altro trascinavo i piedi e capirete che si ponevano seri impedimenti con scale e marciapiedi, per non parlare della difficoltà nel salire in auto. Insomma, senza dilungarci troppo, avevo l'andatura (e anche la postura) da reparto geriatrico e ortopedico uniti in una joint venture della disperazione.

Avrei dormito tutto il giorno, lamentandomi con me stessa dell'assenza di senso della vita; qui ci mettevo anche qualche mugolio in ultrasuoni: gli umani sostenevano che non mi lamentavo mai; cani e gatti mi avrebbero sbranata con piacere.
Se qualcuno mi chiedeva "come stai?", rispondevo "bene" per rispetto delle norme sociali (e per non diventare l'oggetto di domande che anche sul breve periodo provocano una stanchezza infinita) e poi, in casi non rari come avrei desiderato, scoppiavo in un pianto di cui si coglievano solo i singhiozzi, lasciando l'interlocutore a interrogarsi sul significato intrinseco degli avverbi di modo; cani e gatti tentavano di passare dall'idea all'azione.

Un disastro! E tenete conto che vi sto elencando solo gli aspetti meno cruenti del fenomeno, per non darvi dispiacere. 
Volete che vi parli del rapporto con il cibo? 
Lo faccio? 
No, per oggi vi ho già caricati di un peso non da poco, vi lascio il tempo di elaborare e digerire queste informazioni. Casomai affronteremo la tematica in un secondo tempo, quando saremo tutti più sereni.

Poi cos'è successo? 
Perché ora non singhiozzo più, a parte quando rivedo le repliche di Downton Abbey?
Di tanto in tanto lancio nell'etere qualche ultrasuono, ma solo per appurare se ne sono ancora capace (sì, cani e gatti mi detestano).
Vorrei tanto, con tutte le mie forze, dirvi che ho trovato la pillola della felicità o una cura alternativa che ha invertito le polarità delle mie sinapsi.
Macché, niente. Con me la chimica non funziona e, sospetto, nemmeno la fisica... ma non ho ancora verificato gli effetti di una tegola presa di taglio sull'amigdala (casomai vi faro sapere, ma voi non fatelo a casa; e nemmeno fuori).

E' successo che un giorno, trascinando i piedi verso una meta che non ricordo, mi sono vista nello specchio della farmacia, quello che si trova in cima alla colonna degli occhiali da vista.
Orpo, ho detto; non è vero, l'esclamazione era un'altra, ma mi sono posta un limite massimo di trivialità a settimana.
Non è stato vedermi brutta, spettinata, pallida e magra come l'ex sindaco della mia città, a provocare lo stupore.
Non è stato notare che il taglio di capelli che mi ero fatta con la macchinetta conferiva, all'aspetto generale, un qualcosa che mi ricordava i protagonisti di un documentario sui vecchi manicomi (dove ho singhiozzato parecchio).

Gli occhi! Gli occhi non erano più i miei. 
Se ne stavano lì socchiusi e inespressivi a fissarmi, non riconoscendomi. Ricordo di aver pensato che il mio sguardo aveva la stessa intensità di quello di una sogliola, mangiata giorni prima, che mi aveva dissestato l'intestino per via di un'esagerata permanenza dal pescivendolo (evidentemente ci si era affezionato, non so). E mi sono detta che il risultato finale è che facevo andare di corpo (continuate a considerare la questione dell'autocensura settimanale).
Ho riso.
In luogo del singhiozzo ultrasonico, mi è scappata una risata. Perché da lì, ho iniziato a fare battute su me stessa: alcune spietate, altre del tutto irrispettose della mia persona... ma chi se ne frega, ha funzionato.

Da quel momento ho cominciato a partorire battute, tra me e me, davanti a ogni mio dolore.
Non è facile, a volte la situazione si fa veramente dura: ed è lì che do il meglio di me.
Temo che a qualcuno risulti urtante, e lo capisco.
Mi rendo conto che raccontare i propri guai in chiave umoristica (è una chiave sul serio, apre uno sproposito di porte) allontani l'empatia.
Meglio! Creare sofferenza agli altri non allevia in alcun modo la propria. Visto, alla fine si fa un'opera di bene.
E fidatevi, il mio non è un caso eccezionale. Molti personaggi noti per la loro comicità ( e loro sono veramente bravi, non dei mediocri dilettanti come me) soffrono, o hanno sofferto, di depressione, attacchi di panico, fobie varie ed eventuali; leggo scrittori che riescono a farti ridere dall'inizio alla fine di un romanzo (che siano benedetti!), poi scopro tragedie terribili nella loro vita.
Amo, senza se e senza ma, Woody Allen... vedete voi.

Si è depressi allegri. 
Voglio un gran bene anche agli ossimori.


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