Se il panico non fosse mai arrivato


Qualche giorno fa sono capitata in una community (credo si chiami così) in cui gli iscritti si confrontano su panico, depressione, agorafobia e compagnia brutta. In realtà, una buona parte, si limita a scrivere "sto male", con o senza punto esclamativo. 
Li capisco, anche se di per sé quella frase non può portare a nulla, se non a risposte che ripropongono analogo concetto o a qualche frase di circostanza del tipo "ce la farai". In questi casi mi astengo dallo scrivere anche solo una parola; non saprei cosa dire, m'imbarazza tentare di alleggerire il tono della conversazione perché so che in certi momenti c'è poco da ridere. Ammetto anche che provo un certo senso di fastidio nel leggere scambi d'opinioni e consigli su farmaci e relativi dosaggi: è una roba seria, stiamo mica parlando della ricetta del tiramisù e della quantità giusta di mascarpone che richiede. Per favore!

Ma lasciamo perdere queste considerazioni; ognuno faccia un po' come gli pare (questa è la mia filosofia di vita), l'importante è non danneggiare gli altri.
Sulla suddetta pagina ho letto un post interessante. Una signora, o ragazza, o carampana come me, chiedeva agli altri come sarebbe stata la loro vita se non avessero mai avuto il primo attacco di panico. Decine di risposte, dove ognuno tracciava scenari idilliaci seppur ben consci, spero, che la vita non è una passeggiata per nessuno.

Sembrava un remake, mal riuscito come quasi tutti i remake, del film Sliding doors. Ve lo ricordate? La tizia che perde/prende la metro e noi vediamo in parallelo cosa sarebbe accaduto in uno o nell'altro caso. Solo che nel film, nessuna delle due strade è facile. 
Comunque sia, quella domanda mi ha fatto pensare. E la conclusione a cui sono giunta non era quella che mi aspettavo.
I mie attacchi di panico sono giunti una sera, all'improvviso, senza una lettera di referenze o qualcosa del genere, del tutto inaspettati, ospiti a sorpresa che ti maledici per aver aperto la porta. Una sera trascorsa con amici con cui mi trovavo veramente bene, in una città che amo (Genova, è bella, strana, non lascia indifferenti): un secondo prima ero normale (o quasi), il giorno dopo mi ero trasformata nel Detective Monk, tant'è che non riuscivo a prendere il treno per tornare a casa.

Ma prima ero felice? Certo che no.
Prima la mia vita era un casino totale. Ho fatto cose al mio organismo e alla mia mente che è già una grazia essere ancora viva.
Il mio carattere era qualcosa d'insopportabile: faticavo a stare ferma e al contempo mi cullavo nell'accidia; cambiavo continuamente lavoro perché dopo massimo un anno mi cadeva addosso una noia insopportabile nel ripetere le stesse azioni (ero bravina, quindi me lo potevo anche permettere); tendevo a essere empatica come un cactus; pensavo "ognuno per sé, Dio per tutti" nella mia personale accezione atea; facevo colazione con la Coca Cola e mangiavo qualsiasi schifezza facesse piacere al mio palato; pagavo per sentire quello stordimento che ora pagherei per fare smettere; tutto quello che guadagnavo lo dovevo spendere subito, in una specie di pulsione nevrotica tesa a un'incomprensibile necessità di libertà da tutto e tutti; ero attratta da qualsiasi cosa celasse un pericolo o un guaio; raramente ascoltavo i buoni consigli di chi mi voleva bene e, anche quando lo facevo, li dimenticavo subito.

Ovvio che tale valutazione mi abbia gettata un po' in crisi.
Mi sono resa conto che, a parte il disastro lavorativo con annessa difficoltà a condurre una vita dignitosa e con il riscaldamento acceso, il panico mi ha costretta ad abbandonare i vizi dannosi (fumo a parte, purtroppo... ma avevo deciso che uno l'avrei tenuto e questo mi pareva il meno pericoloso, almeno sul breve periodo); a curare l'alimentazione... ma soprattutto a considerare gli altri senza.

D'improvviso si è verificata quella che chiamano "epifania" (che tutte le feste si porta via; è vero), ossia una rivelazione: la sofferenza è una cosa tremenda e prima o poi tocca tutti; da qui deve partire la comprensione per gli altri anche nei loro aspetti peggiori, la consapevolezza che siamo tutti nella stessa barca e che se remiamo insieme si arriva a toccare terra invece di girare in cerchio. Ho notato che spesso le persone che appaiono peggiori hanno carichi emotivi più pesanti, malesseri più intensi. 
Per riassumere, la mia mente, nella fase di maggiore contorcimento, è giunta a un pensiero bene espresso da un proverbio dei nativi americani (riportatomi recentemente dalla mia amica Silvia): "Prima di giudicare una persona cammina nei suoi mocassini per tre lune".

Quindi, alla domanda "Come sarebbe stata la vostra vita senza il primo attacco di panico?" non posso che rispondere: migliore dal punto di vista della tranquillità economica, ma peggiore sotto tutti gli altri aspetti. Perché prima era meglio ma io ero peggio.


Commenti

Post popolari in questo blog

Lavoro a domicilio: vince il sesso

Ne usciremo migliori? Ciau bale!

Agorafobia e taglio dei capelli