Conoscere se stessi. Un lavoraccio!

Chi guarda in uno specchio d’acqua, inizialmente vede la propria immagine. Chi guarda se stesso, rischia di incontrare se stesso. Lo specchio non lusinga, mostra diligentemente ciò che riflette, cioè quella faccia che non mostriamo mai al mondo perché la nascondiamo dietro il personaggio, la maschera dell’attore. Questa è la prima prova di coraggio nel percorso interiore. Una prova che basta a spaventare la maggior parte delle persone, perché l’incontro con se stessi appartiene a quelle cose spiacevoli che si evitano fino a quando si può proiettare il negativo sull’ambiente.

Foto di Congerdesign

Non lo dico io, sono parole di Jung (ho cliccato sull'icona "citazione", ma probabilmente salterà la formattazione perché c'è ancora qualcosa che mi sfugge di questo blog); se ci sono obiezioni, prendetevela con Carl Gustav, che comunque salutiamo con affetto.
Stanotte riflettevo su quale lavoraccio sia tentare di conoscere se stessi, e quanto a volte sia inutile. 
Cioè, sarebbe utilissimo se solo ne fossi capace. Tuttavia, appena mi pare di avere capito qualcosa e mi dico così è e così resta, mi accorgo che quel qualcosa è già cambiato (questione di secondi, qui non si resta mai fermi).

Sono piccoli dettagli. Per farvi un esempio: io nutro la convinzione d'essere una persona molto paziente, difficilmente irritabile, per nulla incline a scatti d'ira (chi mi conosce può confermarlo, e in caso contrario io posso eliminare il suo commento); è una bella qualità, c'è da andarne fieri. Ora, provate a passarmi davanti in qualsiasi fila (banca, posta, negozio, semaforo) e mi trasformo nella bambina dell'Esorcista (nei suoi momenti meno ameni, ovvio); e fortuna che non ho l'abitudine di girare con una mazza, un nunchaku o un rastrello, perché temo farei fatica a trattenermi dall'usarli.

Tenete conto che quella dell'assenza di rabbia è una delle poche certezze che ho sul mio conto. Se ne evince che sono piuttosto estranea a me stessa, dovrei darmi del lei, forse anche evitare di frequentarmi... che non sarebbe un'idea malvagia.
Ma, come diceva Socrate (salutiamo anche lui), so di non sapere; su questo argomento sono preparatissima, potrei superare un esame a occhi chiusi.

Però, tendo parecchio a osservare le reazioni delle persone quando entrano in contatto con me, a chiedermi cosa c'è di sbagliato in me prima di cosa c'è di sbagliato in loro. A mio parere è un esercizio utilissimo al fine di cogliere quelle sfumature che altrimenti sfuggirebbero. Ho scoperto, tanto per dirne una, di non saper affrontare i problemi in modo appropriato, perché quando li racconto la gente ride (e qui c'è anche orgoglio, pudore, timore di apparire troppo fragile, resistenza nel fare entrare gli altri nella mia vita ma, al contempo, bisogno di piacere, ispirare simpatia, stimolare affetto... visto quanta roba?).

Vi racconterò un aneddoto. Anni fa avevo stretto amicizia con una donna con cui mi trovavo bene, forse perché i nostri caratteri erano vicini come Roma e le Isole Chatham (il posto più lontano dall'Italia, l'ho cercato su Google). Lei lamentava spesso, e non so quanto volentieri, di avere grossi problemi con famigliari, amici, colleghi di lavoro e partners. In effetti, molti del suo entourage mi chiedevano come facessi a sopportarla e presto ebbi modo di scoprire che lei risultava perlopiù antipatica già al primo incontro fugace. Una sera la presentai a un amico, il quale dopo meno di un'ora la definì con tre parole che, tradotte in lessico elegante, la paragonavano a una visita dal proctologo. In effetti la protagonista di questa storia era un po' troppo invadente, impicciona e petulante. Insomma, antipatica.

Quando lei mi chiese perché la gente le fosse parecchio ostile, non ebbi il coraggio di elencarle i suoi difetti (a volte sono codarda e detesto essere causa di sofferenza: lascio il lavoro sporco agli altri, questo di me lo so), quindi le consigliai di prendersi qualche giorno per fare un po' d'introspezione. Dissi qualcosa del tipo: se non piaci a una persona, te ne freghi; se non piaci a due o tre, continui a fregartene ma inizi a entrare in allarme; se c'è la fila di gente a cui non piaci, è tempo di farsi qualche domanda e rispondersi con onestà, poi magari tentare di modificare qualcosina nella propria sfera comportamentale.

Mi pareva un consiglio saggio, ma temevo che dopo un adeguato periodo d'auto osservazione (l'avrei scritto tutto attaccato) mi cadesse in crisi. Invece, dopo qualche giorno mi chiamò e con voce fiera mi disse che aveva capito: gli altri non la sopportavano perché la temevano. Devo ammettere che non ho approfondito quali fossero le cause del timore (successo, autorità, forza di carattere, bravura, non so), ma capii che non aveva capito niente... doveva trovare le sue zone d'ombra, non i punti deboli degli altri. 
Non è difficile da comprendere, ci sarei arrivata anche io.

Dal momento che questa donna aveva probabilmente molti difetti ma stupida non era, a pensarci oggi giungo alla conclusione che forse ci aveva provato seriamente a entrare in se stessa, ma alla prima nota stonata se n'era andata.
In fondo l'ho anche compresa. Ho persino azzardato una teoria (e probabilmente qui il dottor Jung mi colpirebbe sul naso con un nunchako; fa malissimo, l'ho provato tra me e me): quando si lamentava degli atteggiamenti degli altri, non faceva altro che riversare su di loro i suoi lati negativi. Lo so, è una teoria tirata per i capelli, ma non sono una psicologa. L'ultimo paragrafo della citazione iniziale dice qualcosa di simile, mi pare (ecco arrivata la sleppa sul naso).

Perché ho fatto questa inutile e vergognosamente lunga tirata?
Perché stanotte ho colto che forse quella donna vive con se stessa meglio di quanto riesca a me che sto sempre ad analizzare ogni mia reazione, la scompongo e ricompongo, invariabilmente mi resta un bullone in mano e mi chiedo se è proprio necessario o se l'ingranaggio funzionerà ugualmente. Certo che funziona, ma male: i panni girano vorticosi nel cestello e escono sporchi come prima (anche se un po' profumati per via dell'ammorbidente; ne metto parecchio).

Però, qui il però è necessario (non ci sono santi), se non si arriva a conoscerci un po', si viaggia ventiquattro ore su ventiquattro con un estraneo che tra l'altro rompe le scatole, vuole seguire altri itinerari, gli scappa spesso la pipì. E si capisce niente del mondo. Caspita, il mondo va capito altrimenti si vive in un inferno fatto di rabbia e solitudine, paura e tristezza.

E proviamo a conoscerci un filino!
Questo articolo non mi piace, sappiatelo. Ma lo pubblico perché mi è uscito di getto, e forse mi servirà a capire qualcosa di più di me (ad esempio che sto diventando petulante, o forse lo sono sempre stata, ora ci rifletto).
Buona giornata, miei cari.                        



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