Il sabato della posta. Panico a go go

Tanto quel pacchetto dovevo spedirlo: un geco (finto) per il nipotino di un'amica; e i nipoti delle amiche meritano qualsiasi sacrificio.
Ho pensato chi vuoi che vada alla Posta di sabato, alla otto e trenta, in un giorno tra due feste, roba che in due minuti sono entrata e uscita; tranquilla.
Tuttavia sentivo quella punta d'ansia che segnala l'urgenza di dare di stomaco. Non è mai un buon segno quando lo stomaco tenta il suicidio lanciandosi dall'epigastrio; non c'è bisogno d'essere veggenti per prevedere la catastrofe, i segni ci sono tutti.

Comunque, ho preso la mia macchinina (che ultimamente ha sviluppato un nuovo rumore da testata fondente al 90%) e mi sono avviata. Un isolato e mezzo e già non si vedeva un parcheggio per chilometri.
Doppia fila, vigili a iosa per via del mercato rionale.
La gente sarà ancora a letto oppure in centro per i regali di Natale o, al massimo, al mercato che in effetti è pieno come una discoteca a capodanno; tranquilla.

Dalle vetrate dell'ufficio, che sono di quel fumè "vedo non vedo", scorgo qualcosina che mi ricorda un girone dell'inferno. Mi convinco che smettere di respirare serve a nulla se non, sul lungo periodo, a morire con un colorito innaturale per chi è sempre pallido come me.
E allora iperventilo e entro con quel capogiro che ti fa aggrappare a qualsiasi cosa appaia vagamente solida, cioè un signore dal ventre prominente e lo sguardo per nulla collaborativo.

Il mondo chiuso in uno stanzone. Caldo acuito dalla temperatura di provenienza (fuori c'è un vento in arrivo direttamente dall'Antartide). Voci che si accavallano. Nemmeno un posto a sedere. Nessun angolo libero dove raggomitolarsi in attesa della primavera.
Gli agorafobici dovrebbero starsene chiusi in casa a meditare sul proprio disagio; i bambini non dovrebbero amare i gechi; perché la gente, in un sabato 9 dicembre alle ore 8 punto 40, non sta dormendo o, in alternativa, non è in centro ad acquistare quintali di regali per Natale?

Perché il 10 dicembre cade di domenica e coincide con la data di scadenza per il pagamento della tassa rifiuti. L'illuminazione arriva osservando con occhi terrorizzati il bollettino azzurro (o verde; l'ansia mi sfasa la percezione dei colori) che tutti tengono in mano.
Io odio la tassa dei rifiuti; odio il sabato; odio la Posta; odio il colore azzurro e anche il verde; sento di odiare anche i gechi, e non è vero.

Ho il numero 22 (tra l'altro è il mio numero preferito, ma mi pare di odiarlo) e il tabellone mi dice che lo sportello pacchi è fermo al 2 (lo odio).
Ciondolo da un piede all'altro, fino a quando non vengo spostata dall'onda d'urto di una signora che arriva con falcata da valchiria, tenendo tra le mani uno scatolone dove presumibilmente sono comodamente adagiati due cadaveri. Un piede fatico a muoverlo: ho pestato un cicles (che a Torino sarebbe una gomma da masticare).

"Non spediamo pacchi superiori ai cinque chili", urla il boss dello sportello pacchi.
"Meno cinque chili" urla a sua volta la tizia con accento polacco o giù di lì; posa lo scatolone mostrando muscoli e volontà d'acciaio. Un vecchietto ulula e in piemontese stretto chiede se nella confezione, finita presumibilmente su un callo, ci sia una palla da demolizione.
Parte la prefazione di una lite globale. Lingue di ogni latitudine e longitudine s'incrociano.
Io cerco di decidere se sia preferibile svenire o vomitare.
Il tabellone è sempre fermo al numero 2 e io decido di uscire. Non facile farsi largo tra palle da demolizione e tasse rifiuti.

Esco ma non mollo.
Aspetto fuori, quando arrivano al numero 20 rientro.
Nel frattempo giro la mano nella borsa con l'energia di un'impastatrice alla ricerca del blister dello Xanax. Forse l'ho già preso appena sveglia, ma a mali estremi estremi rimedi.
Ora mi siedo e visualizzo il luogo sicuro (spiaggia deserta, mare, sole tiepido, ambulatorio medico con il dottor House alle spalle).
L'ufficio postale non ha un predellino, uno scalino, una parvenza di promontorio, su cui adagiarsi e tracollare in pace.
Ho una gran voglia di piangere e ho perso la sciarpa. In compenso tengo stretto il biglietto con il numero 22 e il pacchetto con il geco.

Incrocio le gambe e mi accomodo sul marciapiede. I passanti mi guardano e io me ne frego: sono impegnata a visualizzare la mia spiaggetta e, per quanto mi forzi, vedo un mare intasato da enormi navi da crociera.
Non vi ho parlato della frequenza cardiaca, ma so che ne comprenderete il motivo.

Fa freddo, sono seduta su qualcosa di bagnaticcio, immagino signore ingioiellate che fanno il trenino su imbarcazioni stracariche, ho un geco da spedire, so che l'unico luogo sicuro è casa. Poi penso alle preoccupazioni che mi attendono a casa... e lì scatta l'attacco di panico.
Bastardissimo panico!
Ma non mollo, eh. C'è un dolcissimo bambino che aspetta un geco per Natale: il fatto che la mia vita sia ormai rovinata non deve precludere il futuro radioso che attende il piccolo Emanuele.

Così mi ritrovo a pensare a quell'uomo in fieri che ogni Natale chiede un geco alla sua nonna.
Mi alzo come Rocky, come Rambo, come un'agorafobica che non la dà vinta alla paura.
Rientro, mi isolo mentalmente, lascio che il corpo venga massacrato dai pugni dell'ansia.

Alle 10 punto 46 sono fuori.
Ho spedito il geco.
Ho ritrovato la sciarpa, che ora è a mollo nell'amuchina.
La signora polacca credo sia ancora lì a discutere sul peso delle palle da demolizione.

Mi ci sono voluti due giorni per riprendermi e ancora non mi sento al top della forma (quando mai). 
Ma ce l'ho fatta.

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