L'ansia, la scrittura e l'affollamento delle trame


Esco un attimo dal silenzio della terapia intensiva dove attualmente è ricoverato il mio manoscritto. 
Sembrava un banale malore stilistico, un calo di virgole. Poi è sopraggiunta un'emorragia di punti con conseguente crollo grammaticale. Parametri vitali ridotti a un lumicino.

Non è così grave, poi si riprenderà e tornerà a saltellare pieno d'insensata euforia. Non c'è da preoccuparsi.
Tuttavia, nell'attesa, il livello dell'ansia sale; tocca mettere i braccioli e fare il morto a filo d'acqua, cercando di rilassare tutti i muscoli altrimenti si affonda. E, concorderete con me, rilassare la muscolatura durante un attacco d'ansia è cosa assai difficile, si va giù come un sasso.

Nel corso degli anni di panico, che mi hanno consentito di acquisire una preziosa esperienza nel campo (un dottorato, diciamo), ho appurato che tra le pratiche antistress, la scrittura è pari alla meditazione (e più divertente).
Non parlo di mettere su carta la propria vita. No, la formula del diario agevola malinconie, risentimenti e conclusioni deleterie perlopiù errate, oltre a richiedere un'introspezione che a lungo andare stanca.
Poi, parlare di se stessi con sé medesimi, richiede un ego imponente, altrimenti si ha poco da dire e si cade nella noia.

Per trarre giovamento dalla scrittura, ho bisogno di entrare in una sorta di stato dissociativo, dove sono da tutt'altra parte e io non sono io.
Diventare un'altra persona, diventare molte altre persone.
Uno psichiatra qualificato avrebbe qualcosa da dire in proposito, forse anche una pastiglietta per riportare la mente a sguazzare nel suo sughetto stantio e ormai un po' gelatinoso (sto preparando il condimento per la pasta: la consistenza è questa, prevedo niente di buono per pranzo); ma gli psichiatri hanno la fissazione della normalità e si fa una gran fatica a fargli capire che spesso la normalità non è salutare.

Così, scrivo romanzi. Avevo provato con i racconti, ma l'effetto ansiolitico termina troppo rapidamente. Un romanzo è come uno Xanax a lento rilascio: sconsigliabile nell'emergenza ma ottimo per mantenere uno stato di discreta quiete per l'intera giornata.
Nota a margine (che graficamente non so impostare): non amo i farmaci a lento rilascio, non si adattano alla mia indole; io sono per sopportare fino a quando non ne posso più, è un esercizio che allena la pazienza, la prepara a prestazioni future di una certa rilevanza.

Il romanzo ti obbliga a stare fuori per mesi, persino mentre sei concentrato a fare altro. A volte ti fa alzare di notte o, come nel mio caso, ti fa accendere la luce, prendere taccuino e matita, e scrivere in posizione non confortevole, con il risultato che al mattino senti il bisogno di consultare la Stele di Rosetta per decifrare i geroglifici prodotti dalla matita; il più delle volte va perso tutto, ci dedichi del tempo ma non riesci a capire cosa diamine hai scritto. Meglio fare lo sforzo di alzarsi e fare le cose per benino, a lungo andare il risultato premia lo sforzo.

Detto ciò, in questo periodo fatico un po'. Inizio tante storie, che continuo in parallelo, con il risultato che qui c'è una folla (e basta aggiungerci una "i" e mi diventa follia). Una folla che fa un casino da discoteca il sabato sera, con tanto di volume esagerato.
Da questo particolare ho evinto che probabilmente la mia ansia ha, attualmente, varie fonti e stenta a concentrarsi su una sola grana alla volta.

Così, stanotte, ho chiuso il taccuino con i suoi crittogrammi e ho deciso di tenermi l'ansione per qualche giorno. Via tutti!
I personaggi continuano a bussare, ad attraversare la mente a passo di danza (ballano alla Micheal Jackson - moonwalking - sono divertenti), ma io non so cosa fargli fare, non ho voglia di pensarci fino a quando non mi diventeranno più disciplinati.

Mi dispiace, non crediate che sia contenta. Mi sento come davanti a un blister vuoto di ansiolitici. 
Nel frattempo leggo, traggo beneficio dalle altrui autoterapie.
Solo qualche giorno... poi si ricomincia.

Buona domenica, miei cari.

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