La paranoia nel destino
Mi rifiuto di ingollare uno Xanax alle 7 del mattino.
Questo mi sono detta prima di uscire.
Nella mente ho sentito la determinazione balbettare, diciamo che mi è parsa una determinazione poco determinata.
Così, ho raggiunto il compromesso di infilare il blister nello zaino che, non che sia importante ai fini della narrazione, pesa in media tra i 5 e i 10 chili.
Il fatto è che esco sempre con la convinzione di non rientrare più.
E allora finisce che mi porto dietro libri, acqua, taccuini, matite, temperino, spazzolino, una confezione da viaggio di dentifricio, un cambio di biancheria, il tablet e altre cose di normale amministrazione nella gestione di una borsa.
Comunque esco con il carico dello zaino e dell'incertezza del destino, vado verso l'auto che mai parte al primo tentativo e mi avvio verso il meccanico. A metà strada penso che è tempo di trovare un altro professionista dei turbamenti del motore più vicino a casa, magari dietro l'angolo.
Avverto l'impulso di prendere lo Xanax.
Mi ripeto che non devo pensare al fatto che al ritorno non sarò motorizzata; niente rifugio di lamiera, nessuna barriera tra me e il mondo esterno.
A forza di ripetermelo entro un po' in paranoia.
E piove.
La parte più debole della mente mi suggerisce che la pioggia meriterebbe un ansiolitico, poi mi persuado del fatto che da sempre preferisco l'atmosfera autunnale al sole.
Per festeggiare prenderei uno Xanax.
Il meccanico mi attacca un bottone più eterno di quanto prevederebbero le norme sociali di una conversazione tra persone che non hanno nulla da aggiungere oltre a un asettico scambio di battute tipo:
- buongiorno, ecco le chiavi. A che ora passo a ritirarla?
- Nel tardo pomeriggio, grazie. Buona giornata anche a lei.
Invece, quel delizioso signore si premura di ricordarmi che questa sarà l'ultima revisione, che entro due anni dovrò acquistare un'altra vettura, e poi parte una lunga disquisizione sul mercato dell'usato, con tanto di prezzi, caratteristiche dell'impianto elettrico delle auto giapponesi (pare non sia dei migliori), opportunità di trovare un vecchietto che vende l'usato...
Inizio a dissociarmi e a ripulire l'interno della mia vecchia Cinquecento, a cui è stata diagnosticata un'aspettativa di vita che, ad essere fortunati, non supererà i 24 mesi.
Mentre raccatto scontrino e pacchetti vuoti di sigarette (oltre a qualche mozzicone) dai tappetini fatti di foglie secche, mi accorgo che le mani tremano, che il fiato è sempre più corto, che ho voglia di vomitare sui tappetini di fogliame, che l'attacco di panico sta salendo veloce come una cena del peggiore ristorante cinese del pianeta.
Esco dall'abitacolo e mi arpiono con le unghie in una feritoia della carrozzeria. Fortuna vuole che trovo crepe ovunque e la ruggine tra le rughe della vernice offre una parvenza di ancoraggio antiscivolo.
Mi allontano salutando con la manina mentre, mi pare di cogliere, si sta disquisendo sulle truffe del mercato dell'usato.
Barcollo sotto un'acquazzone, portandomi dietro lo zaino ipertrofico e il ben più pesante attacco di panico che ormai si è fatto grande abbastanza per prendere decisioni senza i miei consigli materni.
Attraverso una piazza e m'interrogo sugli effetti della location sull'agorafobia; lei risponde che è tempo di prendere l'ansiolitico, ma io resisto perché sono testarda, masochista e pigra (vallo a trovare, il blister, nel marasma del bagaglio).
Seduta alla fermata del bus, immagino di avere un aspetto terrificante con i capelli troppo corti ritti sulla testa e la faccia da profuga.
Il primo pullman che passa è pieno come un uovo. Lo guardo con falsa indifferenza, me ne resto sul marciapiede quando le porte si chiudono, e finalmente prendo lo Xanax; infilo la pastiglia sotto la lingua, nella vana speranza che faccia effetto prima e garantendomi (temo) un'ulcera alla mucosa orale.
Quando, finalmente, passa un mezzo di trasporto con adeguati parametri di suolo calpestabile, ci salgo con lo sprint di un'ultracentenaria e riesco anche a sedermi.
Non guardo la gente (ma ne sento il calore del respiro, mescolato all'odore di selvatico tipico dei ragazzi che stanno andando a scuola), preferisco rivolgere lo sguardo all'esterno anche se il mondo mi appare leggermente distorto da un'aberrazione del campo visivo.
Mi ripeto "Non entrare in paranoia!", vorrei cantarlo come un mantra tibetano.
Appena il ragazzo seduto davanti a me si alza, decido di concentrare l'attenzione sul sedile vuoto.
"Non entrare in paranoia!"... ripeto l'esercizio anche sul bus successivo, fino a quando, fissando il sedile davanti a me, mi appare in bella evidenza una scritta.
E mi dico che forse la paranoia sta cercando di comunicarmi qualcosa d'importante.
Appena scoprirò di cosa si tratta, sarete i primi a saperlo.
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