Alla faccia della fobia sociale!

Il cielo antistress

So di non aggiornarvi da tempo circa i miei progressi nelle uscite da casa. 
Non pensiate che voglio tenermi tutto per me e festeggiare da sola, mangiandomi l'intera torta e tracannando a canna una bottiglia di Dom Perignon: sono esposta (per via famigliare) al diabete, sono astemia e non sono egoista... il tutto con moderazione.
Il fatto è che, negli ultimi tempi, i miei successi si alternano a imbarazzanti fallimenti. Ad un rapido calcolo, mi trovo sul meridiano di Greenwich dell'equilibrio mentale. Vedete quindi che rischierei di darvi false speranze e farvi perdere un sacco di tempo.

Però domenica mattina ho affrontato con coraggio e determinazione una capatina in un ipermercato... avete idea? Cioè, riuscite a immaginare lo sforzo titanico e la dedizione alla causa? 
Oddio, in venti minuti sono entrata, ho fatto la spesa e sono uscita, ma in quei venti minuti mi è passata tutta la vita davanti (esattamente come è accaduto con due persone alla cassa; oscillavo con sguardo catatonico e una lieve paralisi, mi sarei passata davanti anche io).

Ma non è questo che volevo raccontarvi.
Sabato ho accettato l'invito a una sorta di adunanza di vecchi clienti della mia cartoleria del cuore, che purtroppo ha chiuso i battenti a fine anno. Era una questione affettiva, vicinanza empatica con i gestori, ma anche desiderio di mettermi alla prova.

Arrivo e, a chi mi accoglie in cortile, chiedo se dentro c'è molta gente. Sì, ovvio che c'è gente stipata in uno spazio per nulla ampio. In effetti si sente il vociare allegro e concitato di donne prese da inspiegabile euforia da branco.
"Però in magazzino non c'è nessuno", aggiunge l'ex cartolaio che in quel preciso momento sento di amare. Vada per il magazzino! Dove converso nevroticamente con il premuroso anfitrione tra scaffali zeppi di quaderni, notes e matite, ossia la mia personale visione del paradiso.

Poi mi faccio forza e mi butto nella mischia. 
Entro ed esco con regolarità; a tratti tiro fuori il telefonino e guardo la foto del cielo scattata giorni fa che, come ho scoperto con gaudio, ha un effetto rilassante (per quel che può).
Tuttavia, all'ennesima spinta alla fuga, l'unico uomo tra gli invitati (un signore gentile, con il viso buono) mi dice "non sopporta il caldo, vero?"
"Non sopporto la gente!" Lascio calare l'affermazione con la grazia di una ghigliottina. Mi sa che ho anche usato un grado di elevazione della voce di una tacca sopra alla tollerabilità uditiva umana, perché due o tre signore mi fissano.

Ma l'esclamazione mi è uscita mentre sono distratta, con lo sguardo stravolto di una donna che scruta, tra la folla della stazione, gli ultimi passeggeri che scendono dal treno senza trovarvi il suo unico grande amore (lui le ha tirato un bidone con conseguenze da drammone apocalittico).
In realtà sto appurando che l'unica via di fuga è bloccata da un capannello di signore che chiacchierano allegramente come se il mondo fosse un bel posto.

Mi dico che ora, per uscire, dovrò interagire con loro, quantomeno chiedere permesso esibendo un sorriso.
A dire il vero, la parte del sorriso mi riesce bene; ormai sorrido in automatico, senza un motivo ragionevole, diciamo pure a cazzo.
Non so perché. 
Dopo un'infanzia e un'adolescenza musone, a un tratto ho iniziato a sorridere, ci ho preso gusto e non sono più riuscita a smettere.
Come con le sigarette, uguale, è un vizio. 

Appena fuori mi appoggio al muro, faccio tre respiri profondi e rimpolpo il plotone di ossigeno nel cervello che dentro si era ridotto a una sola molecola in via di decomposizione.
Ricomincio a ragionare con una certa lucidità.
"Non l'ho detta bene", bofonchio tra me.
Ecco che mi sale il dispiace per aver quasi urlato a persone carine che non le reggo.
Ma d'altra parte cosa potevo fare? Snocciolare l'anamnesi psichiatrica? Raccontare la triste, discretamente ostica, nonché poco interessante, saga della mia fobia sociale?
No, non si può.
Cioè, si può, ma mentre fisso il cielo mi persuado di capirci poco anche io; altrimenti non sarei lì ma a casa, nel letto a dormicchiare fino a sentirmi sazia di sonno.

Infine, chiamiamola pure fobia sociale, tuttavia da un punto di vista semantico, avrò esposto l'argomento in termini brutali, ma non è ravvisabile errore alcuno nell'affermazione che non sopporto la gente.
C'è una sfumatura che andrebbe considerata, ma chi ci bada più alle sfumature.

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