Due donne libere

Nella camera ci sono due letti.
Io, di solito, sto seduta su una di quelle vecchie e scomode sedie che ricordano gli anni delle scuole elementari, di lato alla porta.
Accanto alla finestra c'è il letto di una paziente che mi ha intrigata e spaventata al primo incontro.
Perché mi somiglia.
Non nei tratti somatici, si tratta di qualcosa nella sua personalità distorta dalla malattia.


Parla da sola col tono del sussurro, mentre muove nervosamente le dita come se stesse contando e sfogliando le pagine di un libro. Fa piccole smorfie come se il calcolo mentale fosse troppo complesso o producesse un risultato insoddisfacente.
Capita anche a me, quando l'ansia si fa severa.


Tiene la testa girata verso la finestra; gli altri guardano la porta, ci ho fatto caso.
Spesso, però, si guarda attorno come se improvvisamente scoprisse d'essere in un luogo a lei sconosciuto, e io ci patisco un po'.
Ma soprattutto chiede sigarette a chiunque varchi la soglia.
Tira fuori dei soldi da una borsettina nera e li offre in cambio di un pacchetto e di un accendino.


Quando ieri sono arrivata in ospedale mi sentivo stanca più di quanto fosse necessario.
L'ho vista dalla porta d'ingresso del reparto, parcheggiata su una sedia a rotelle contro la parete in fondo, mentre gesticolava.
Mi sono imposta, come già nei giorni precedenti, di smetterla di pensare che diventerò come lei.
Mi sono detta che devo finirla con questa mania dell'empatia a piede libero, perché rischio di diventare come lei, a lungo andare.
Mi ha guardata con i suoi occhi spersi; non mi ha chiesto una sigaretta perché da giorni le ripeto che non fumo.
Intanto, però, fermava medici e infermieri mostrando 20 euro e implorandoli di comprarle un pacchetto e un accendino.
Un medico le ha risposto che quando qualcuno la va a trovare, può farsi accompagnare fuori a fumare.


Quella donna non ha parenti, c'è solo un'amica schiamazzante e un tantino idiota (non è una mia diagnosi, è parere comune nel reparto) che le porta roba da mangiare strafritta e per nulla attraente.
Ieri, a un tratto, ha iniziato a piangere, silenziosamente ma con lacrime copiose.
Sono rimasta davanti a lei, a fissarla più di quanto imporrebbe la buona educazione.
Poi mi sono guardata intorno: medici e infermieri erano scomparsi.
- Le piacerebbe fare un giretto con me? - Le ho chiesto.
Ha nuovamente alzato su di me il suo sguardo sperso. Però le uscito un rapido e deciso "sì".


Ho iniziato a spingere la sedia a rotelle, prima lentamente poi con una discreta velocità.
Abbiamo superato la porta della camera, quella dell'ingresso al reparto e poi quella di un ampia terrazza che unisce due padiglioni.
Le ho infilato il mio giubbotto nero sul suo pigiama fucsia a fiorellini (pessimo outfit, ma chi ci fa caso) e ci siamo fermate al sole.
Le ho infilato la sigaretta in bocca, che le è cascata per lo stupore.
Poi ha sorriso e ha smesso di contare e sfogliare il libro immaginario.


Ci siamo accese quello stramaledetto, ma anche benedetto, rotolino di veleno.
Occhi chiusi al sole, abbiamo iniziato a chiacchierare.
Lei si è fumata anche un pezzo di filtro, ma la capisco.
E' stata una bella conversazione, la stanchezza è sparita e per qualche minuto mi hanno abbandonata anche l'ansia e l'angoscia.
Per qualche minuto non ho sentito il bisogno d'essere un'altra persona, di mostrarmi più forte o "normale".
Due donne libere e serene... per qualche minuto.
E sì, mi somiglia.

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