Oggi vi parlerò di Vincenzina
Nuovo ospite della struttura di sollievo che sarebbe casa mia |
Ho paura che oggi vi parlerò di Vincenzina. Vi tocca anche questa.
Lo faccio perché è domenica, ossia il giorno in cui andavo a pranzare con mia madre nella struttura temporanea o di sollievo (chissà a chi o cosa è riferito il sollievo) in cui era ospitata.
Lì ho avuto modo di conoscere personaggi interessanti, ognuno struggente a modo suo, perlopiù mancanti di visitatori e di voglia di vivere.
Vincenzina aveva il musetto che ricordava vagamente una cavia peruviana ma con occhi vivaci e, direi, terrorizzati da qualcosa (avrei pagato per sapere cosa).
Capelli grigi tagliati presumibilmente da un toelettatore per cani, bocca perennemente aperta come fosse la musa ispiratrice di Munch.
Indossava sempre un grande bavaglino, tipo neonato extralarge, perché sbavava parecchio (come io quando dormo... e ora voglio vedere se qualcuno ha ancora il coraggio di inviarmi quei messaggi che sono un mix tra il corteggiamento e l'erotico).
Urlava spesso Vincenzina; nulla di comprensibile; un gran baccano indecifrabile.
Veniva imboccata da operatrici frettolose che, a quelle come lei (cioè tendente al catatonico), infilavano in bocca cucchiaiate di pappetta che sembrava d'essere in un allevamento per oche da paté: si doveva mangiare in fretta, c'erano un mucchio di cose da fare, poco personale contro troppi vecchiacci sul groppone dell'inps (che Dio lo strafulmini!).
A me Vincenzina faceva un po' impressione, lo ammetto.
Mi dispiaceva vederla spesso posizionata in un tavolo isolato, fuori dalla vista di eventuali visitatori (tanto c'era quasi mai un cazzo di nessuno, a parte io e Romano... un novantenne splendido, innamoratissimo della sua malata moglie), ma vederla mi creava comunque un discreto disagio per via di quegli occhi, della bava, delle urla a bocca piena o vuota (impressionanti uguale).
Il più delle volte, al primo boccone sputava tutto o iniziava a tossire: la prima volta che l'ho incontrata ho pensato fosse meglio pranzare con un lama (sì, tendo a creare analogie continue tra persone e animali, e ad essere un filino carogna, a volte).
A quel punto la spingevano via, con la sedia a rotelle e fascia d'ordinanza che teneva tutti gli "ospiti" del "sollievo" immobili lì seduti; quindi la parcheggiavano in un corridoio, spalle al muro così da poter fissare quello davanti (ma qua e là c'erano dei quadri; pochi ma c'erano).
Io continuavo a sforzarmi d'ignorarla perché avevo già abbastanza magoni per i fatti miei.
Una domenica, però, l'hanno posteggiata al tavolo da pranzo accanto a mia madre e io ero tra loro. Ricordo di aver previsto una doppia doccia appena arrivata a casa e, per amor di simmetria, due pastiglie di Xanax.
Stessa scena delle altre volte, ma senza urla: un cucchiaio stracolmo (forse perché non avevano a mano un mestolo), lei ributta tutto fuori. Le operatrici rinunciano all'impresa, ma la lasciano lì.
Con la coda dell'occhio vedo che tenta di avvicinare la mano al cucchiaio ancora nel piatto. Ci prova più volte.
Mentalmente mi maledico e mando anche qualche accidente alla vita.
Inizio a mettere una punta di cibo sul cucchiaio e la imbocco. Piano piano mangia tutto, con lo sguardo fisso nei miei occhi e lacrime che cadono a lato dei suoi.
Poi prendo una cannuccia, la infilo nella bottiglietta d'acqua che prosciuga in un amen.
Mentre mangia e beve, con la mano libera le accarezzo i capelli e le dico che è bellissima; in quel momento lo penso sul serio, anche se sta con la bocca aperta come un passerottino da svezzare e somiglia a una cavia.
La vecchia seduta davanti, m'informa che è la prima volta che Vincenzina mangia tutto... e lei è lì da due anni, sa tutto di tutti, e non ha pudore a raccontare, anzi se le si dà il LA suona tutta la sinfonia; le chiedo se non ci sia mai un'anima che vada a trovarla, magari per aiutarla a mangiare, chessò, una volta al mese o a Natale e Pasqua.
No, mai visto nessuno per Vincenzina.
- Forse non ha più nessuno - azzardo.
- E' che quando ci mettono qui, poi si dimenticano - confessa la signora ciarliera; a qual punto voglio bene pure a lei, anche se di solito non reggo le pettegole.
Allora premo la mia guancia accanto a quella di Vincenzina, stringo un po' a me quel mucchietto d'ossa che, a stima, non deve superare il metro e cinquanta.
Colgo che tenta di allungare la mano verso di me, la aiuto, mi stringe forte... e mi sussurra all'orecchio "tu mi vuoi bene?".
Pumf, una coronaria si è spampanata, l'ho sentita, nessun cardiologo potrà mai convincermi del contrario.
Quel giorno sono uscita subito dopo pranzo, non sono rimasta per quell'oretta che attendeva la messa a riposo nei letti con sbarre. Il panico aveva delle urgenze improrogabili.
Sono salita in auto, ho aperto i finestrini, e dopo quasi quattro mesi di anomalo blocco all'altezza dello stomaco, ho finalmente pianto. Un pianto lungo quella mezz'ora di viaggio per tornare a casa.
Ora, di domenica, penso più a Vincenzina (che suppongo sia ancora là), che a mia madre che non ce l'ha fatta.
Mi dico che dovei andare a trovarla, poi mi dico che sono una fottutissima vigliacca e me ne resto qui in compagnia della coronaria spampanata che, guarda caso, di domenica si fa sentire.
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