L'assenza ingiustificata dell'entusiasmo

Tra una manciata di giorni uscirà il mio nuovo romanzo.
Ieri ho ricevuto le prime copie fresche di stampa.
Bello, bello, bello... gioia gioia, gioia... festa...
ALT!
No. Niente. Solo un po' d'ansia, di quella brutta peraltro.
Eddai, sii contenta, mettici un po' d'entusiasmo, cosa ti costa?
Me lo ripeto mentre, seduta sul divano con le spalle spioventi del depresso, fisso la scatola contenente i volumi profumati da carta non ancora contaminata dal fumo dalle sigarette. E mi odio, eh. Attenzione, in momenti come questi mi odio con tutte le mie forze.

Una gatta entra nella scatola e tenta di distruggere la fonte della mia tristezza.
Mi scappa una risata, giro un brevissimo video: tre minuti di umore decente. Poi passa, non c'è da preoccuparsene.

Di tutto ciò non me ne frega niente.
Lo dico a voi perché so che non lo racconterete in giro.
Mi spiace solo che potrebbero passare casualmente di qui l'editore, la mia agente, le persone che hanno lavorato alla copertina, all'impaginazione, all'editing... e persino il tipografo.
Tutta gente meravigliosa che mi ha colmata d'affetto, a cui ho mandato messaggi pieni d'entusiasmo, perché è questo che si aspettano da me.
Niente, il buio, solo ansia.

Allora prendo una pastiglia, mi risiedo sul divano abbracciandomi le ginocchia, dondolo per calmarmi, ricomincio a fissare lo scatolone attendendo che l'effetto del farmaco mi porti l'entusiasmo latitante.
Cazzo, niente!
Ma cosa ti fa felice? Ci penso, rifletto, do il via all'introspezione... un buco nero, una voragine, le sabbie mobili, il vuoto cosmico.
Telefono a qualche amico; si decide che la cosa va festeggiata con una cena (sono inappetente), tocca stappare una bottiglia (sono astemia), potremmo persino fare un viaggetto (sono agorafobica)...

Brava, complimenti, devi essere fiera di te; ripetono le stesse cose e mi sale il magone perché sento che mi vogliono felice, e io non ci riesco.
Chiedo scusa alle persone che hanno lavorato con e per me, ma non me ne frega niente. L'unica che è riuscita a farmi felice è stata la gatta in attacco nevrotico-distruttivo.
Poi smetto di cullarmi e di farmi cullare.
È vero, io amo scrivere; non c'è nulla che mi dia più soddisfazione, ma appena finisco una storia non m'interessa più, passo ad altro.

Guardo quel romanzo è non riesco a riportare a galla l'entusiasmo dei giorni trascorsi insieme.
Ricordo solo di avergli sacrificato intere stagioni di serie TV, nottate di sonno o di gioco (un centinaio di partite a mahjong, almeno); di non essermi concessa un giorno di vacanza; di aver sacrificato le ore libere dal lavoro e i momenti da trascorrere con le persone che amo; di aver dovuto rileggere il manoscritto (cosa che odio), tagliarlo, allungarsi, limarlo, sinonimizzarlo (non esiste, inutile telefonare all'Accademia della Crusca), mentre stavo su una sedia, accanto al letto di mia madre agonizzante, in quelle interminabili e angoscianti giornate ospedaliere. 
Ricordo di aver ironizzato sulle mie fobie per renderle letterarie, di averle umiliate, ma anche analizzate come mai prima, e di averne, a tratti, sofferto.
Potrò concedermi di non provare entusiasmo? E insomma!
La vogliamo giustificare quest'ansia che minaccia panico?
Secondo me, ci sta tutta.

Poi, non vi stupite se nei prossimi giorni vi asfalterò i cabasisi con entusiastici inviti ad acquistare la mia "meravigliosa, memorabile, imperdibile opera".
È marketing.
Da non confondersi con l'entusiasmo.


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