Ridere di dolore
Giorni fa mi sono imbattuta in un articolo che parlava della connessione tra ironia, umorismo, sarcasmo (soprattutto sarcasmo) e depressione. Purtroppo non lo trovo più perché mi ostino a credere fermamente di poter ricordare dove ho messo qualcosa, dove ho letto qualcos'altro, persino dove mi trovo. La realtà è che la mia memoria è assai selettiva ed ha scelto di ricordare nulla, a parte eventi sgradevoli e dati del tutto inutili, ovviamente.
Comunque sia, sono molti gli esempi, soprattutto in campo artistico, di personaggi estremamente divertenti che nella realtà soffrono di vari disturbi dello spettro depressivo. Il più famoso è certamente Woody Allen, che non ha mai fatto mistero del suo mal di vivere, anzi lo ha elevato a forma d'arte. Un celebre scrittore, David Forster Wallace, che per inciso amo moltissimo, ha scritto straordinarie pagine intrise d'ironia, ma purtroppo ha sempre sofferto di una grave depressione che lo ha portato al suicidio.
Nel romanzo che lo ha reso famoso in tutto il mondo, Infinite Jest, scrive : "La persona che ha una cosiddetta "depressione psicotica" e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette "per sfiducia" o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l'invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme".
Dopo aver letto l'articolo di cui sopra, ho riflettuto sul fatto che uno dei sintomi della depressione, almeno così affermano gli specialisti, è la perdita del senso dell'umorismo. E allora come funziona?
Credo che la discriminante sia, come al solito, nel mezzo.
Personalmente, so di apparire come una persona che fatica a prendere qualsiasi cosa sul serio. Per gli amici può risultare divertente ma, a volte, anche destabilizzante o fastidioso.
Ho impiegato molti anni a comprendere che più mi impegno nell'ironizzare su tutto, nel fare battute, nel rispondere con sarcasmo, più sento che l'intensità del mio malessere sta crescendo.
Amo scrivere e da sempre desidero dedicarmi ad un romanzo di quelli che "spaccano il cuore", tuttavia non ci riesco. La motivazione è che scrivo con maggiore slancio e intensità nei periodi particolarmente difficili, quando ho più problemi; la mia mente cerca disperatamente una distrazione dal dolore... e allora ride. E' una risata amara, ma mi piace l'idea che chi legge possa trovare allegria e spensieratezza.
Ognuno di noi, riuscendo a superare l'ipocrisia e applicando un'onesta autolettura del proprio stato emotivo, sa d'indossare un'infinità di maschere.
Non dite di no, non cercate di convincervi che siete sempre fedeli a voi stessi... sono aperta a tutto, ma su questo punto non vi credo.
Sul lavoro non vi comportate come quando state tra amici, e con gli amici non avete lo stesso atteggiamento di quando siete soli con voi stessi.
Non c'è nulla di male, si tratta di adattamento ed è una funzione naturale di ogni essere vivente. Diverso discorso sarebbe se la finzione fosse stimolata dal pudore di mostrarsi fragili o malati: serve a niente, se non ad acuire il proprio e l'altrui disagio.
Ridere per non piangere è una difesa, un modo per tentare di opporre resistenza al malessere. Se funziona è una gran cosa per tutti. Quando, invece, si esaspera tale aspetto è il momento di dirsi "Alt!" e iniziare a riflettere sull'intensità del problema.
Tocca scavare come minatori gallesi a cottimo. Lo so che spesso dico che è meglio ignorare i disturbi in attesa che se ne vadano con la coda tra le gambe, purtroppo non accade.
Quindi? Guardarsi dentro per comprendere se è tempo di chiedere aiuto fuori o di affrontare quei diavoletti che talvolta si nascondono dietro a una raffica di battute esilaranti.
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