Tutti hanno paura
Panorama ospedaliero |
Cos'è il coraggio?
Per me è andare al supermercato di sabato pomeriggio o entrare in un ospedale. Per tanti sarà qualcosa di più epico ed eroico. Ma la mia paura non ha meno dignità delle altre.
Qualche giorno fa ero in ospedale per una visita prericovero. Inutile ripeterlo, ma lo faccio ugualmente: nulla mi terrorizza quanto gli ospedali.
Mentre mi accingevo ad affrontare i corridoi affollati sentivo che le gambe iniziavano ad essere poco collaborative; arrivata all'ascensore ero certa che sarei crollata a terra e, lo ammetto, speravo in un infarto acuto (e non se ne parla più).
Una volta raggiunta la sala d'attesa, è già mi pareva di aver scalato l'Everest, non c'era una sedia libera e a quel punto le gambe non le sentivo proprio più.
Mentre attendevo con gli altri, immaginavo quanto tutto sarebbe più semplice se non avessi tutte le paure paralizzanti che, per quanto mi ostini ad affrontare, sembrano non tenere conto dei miei sforzi, o almeno non quanto giudicherei perlomeno cortese.
Fortuna che nella borsa ho sempre uno o due libri: leggere riesce a distrarmi un pochino. Certo, mi devo sforzare per trovare la giusta concentrazione e non girare pagina con la consapevolezza di non aver assimilato nemmeno una parola. Di norma ci riesco abbastanza bene applicando i principi della meditazione sulle parole dei romanzi, poi su un intera frase, quindi sul capitolo.
Tuttavia, guardavo gli altri con un misto di ammirazione e invidia. Mi sembravano tutti un po' malinconici (non è che il luogo e la prospettiva diagnostica stimolino un'esagerata allegria) ma comunque tranquilli a giochicchiare con i loro smartphone, iPhone, tablet, eccetera.
Ci ho provato anche io a smanettare con il cellulare, a mandare qualche messaggio, a fotografare il panorama fuori dalle finestre (niente di bello da immortalare: ponteggi talmente arrugginiti da fare temere il tetano solo a guardarli; però, oltre il Po, si vede la collina e aiuta a sognare), a giocare a Yatzy con un coreano che si è mangiato tutti i miei risparmi virtuali. No, il digitale non mi rilassa, anzi aggiunge una strana sensazione di solitudine all'ansia. Con i romanzi mi pare di avere compagnia e, nei giorni propizi, d'essere in altri luoghi ed epoche, magari a tentare di risolvere un intricato caso d'omicidio.
Comunque, dopo essermi congelata il posteriore sui gradini di una scala e aver condannato un innocente (la Miss Marple che alberga nella mia mente perde colpi nelle strutture sanitarie), finalmente sono stata chiamata per fare anticamera in un'altra sala.
Lì, le stesse persone che avevano occupato tutte le sedie nella sede precedente, mi parevano meno interessate al web, un po' più pallide e con una sorta di tic ai piedi che, in ensemble, creava un ritmo vagamente simile a musica tribale.
Quando entro dall'anestesista mi trovo una dottoressa giovane, simpatica, carina ed estremamente rilassante che mi spiega per filo e per segno il lavoro che farà su di me per farmi addormentare. Confermo senza pudore che dopo aver saputo di poter assumere il mio ansiolitico per recarmi in ospedale il giorno dell'intervento, l'ho ascoltata per sommi capi... cioè, a dirla tutta, ho ricominciato a pensare al giallo, all'assassino che poi era un altro, e al fatto che il tempo che mi allontanava da casa si stava riducendo.
Tornata in sala d'aspetto, in attesa della visita dal chirurgo, una signora che per tutto il tempo ho sentito dare ordini perentori via telefono a qualche suo sottoposto in odore di esaurimento nervoso, si è avvicinata e con voce da complotto mi ha chiesto se anche a me avevano preannunciato il terribile destino che ci accomunerà a breve.
Devo aver assunto quell'espressione ebete che mi riesce sorprendentemente naturale.
La conversazione è andata così (più o meno, per quanto mi sia dato di ricordare):
Io - Cosa? - aria ebete di cui sopra.
DIC (donna in carriera) - Le hanno detto che saremo intubate?
Io - Sì.
DIC - Saremo attaccate a un respiratore...
Io - Lo so, pare che quel tipo di anestesia blocchi la respirazione involontaria.
A quel punto, un po' di gente che doveva ancora sentire la "lieta novella" dalla voce dell'anestesista, ha iniziato ad allarmarsi. Così, per non essere da meno, l'ansia ha ricominciato a salirmi verso la gola. In quel frangente ho anche compreso perché io preferisca fare le cose più sgradevoli senza accompagnatori. Comunque, è partita la gara alla catastrofe, oltre all'elencazione di vari interventi chirurgici subiti da tutti su cui spiccava una tonsillectomia in assenza di sedazione (racconto di un simpaticissimo e attempato signore romano, che ha contemplato scene insindacabilmente splatter). Nel chiacchiericcio sulla respirazione volontaria e involontaria, e nelle espressioni facciali, ho colto che gli astanti iniziavano ad invidiare l'esperienza del romano.
- Quindi la nostra respirazione dipenderà da una macchina - deduce con amarezza la DIC.
Io taccio e penso che una volta addormentata m'interessa poco cosa accadrà.
- E se manca la luce? - chiede un'altra signora (gli uomini mantenevano un eroico silenzio... pallidini anche loro, eh).
Io - Quei macchinari hanno generatori d'emergenza, un blackout non le spegne di certo.
Romano - Visto come funziona questo ospedale ci dice bene se non fanno girare a noi la manovella del generatore.
Rido ma la mia ilarità non è contagiosa.
DIC - Non capisco perché debbano darci tutte queste informazioni... io non le voglio sapere.
Siamo stati a un passo dalla standing ovation, le teste annuivano a ritmo con i piedi nevrotici.
"Non voglio sapere", testa sotto la sabbia... la donna in carriera ha ragione; personalmente preferisco sapere, anche se sono soggetta ad attacchi di terrore preventivo.
Perché vi ho raccontato questa storia?
Perché lì, in quel momento e tra quegli estranei che però iniziavo ad avvertire come una famiglia unita da una disgrazia, ho colto che TUTTI HANNO PAURA!
Lo sapevo anche prima, tuttavia ero convinta che il mio terrore fosse unico e inavvicinabile per intensità e frequenza.
E' vero, la mia ansia è patologica (sono in possesso di un certificato medico che lo attesta) ma non sono così strana e anormale come penso. Sì, temo la visita inaspettata di un clown mentre sarò ricoverata (ci sono, negli ospedali girano clown, li ho visti con i miei occhi e sono scappata come un leprotto) e questo non sarà un granché ordinario, ma anche immaginare che un macchinario vitale possa spegnersi per un calo di corrente... beh, non è male come assurdità, a mio parere batte la coulrofobia.
L'essere umano ha debolezze, paure, angosce e ansie talvolta immotivate. C'è chi è più impressionabile e sensibile, ma non esistono persone immuni dalla paura (tranne in qualche peculiare caso di grave malattia mentale).
Quindi, le mie gambe si paralizzeranno forse per il resto della vita, ma non credo sia il caso di vergognarsene. Ho paura, come tutti: devo semplicemente smettere di misurarla e confrontarla con quella del resto del mondo.
Per il resto, spero non ci sia un blackout.
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