Battere il panico per stanchezza


“Le risposte non vengono ogniqualvolta sono necessarie, come del resto succede spesse volte che il rimanere semplicemente ad aspettarle sia                                                                      l'unica                                                               risposta possibile"                                                                                                José Saramago.
Credo di aver capito cosa sta accadendo; diciamo che ho avuto un'epifania mentre ero impegnata in una gara di sopravvivenza a stress, stanchezza e doloretti fisici, con tre compagni d'avventura.
Inoltre, mi è ormai chiaro che la vita mi sta mettendo alla prova. Non sono così presuntuosa, egocentrica e insensibile alle altrui sofferenze da pensare che, per un intento tanto modesto, si debba debba scatenare un'epidemia globale, ma ho il sospetto che la vita si sia accodata a faccende altrui per sottopormi al test attitudinale (mi sa che non lo passo; se mi rimandano a settembre sono più contenta perché sono debole su materie fondamentali).

Ora vi racconto, ma vi prego: se trovate incongruenze, macroscopici errori grammaticali e/o di sintassi, deliri e salti repentini di palo in frasca, considerate che mi sento stordita, parecchio giù di tono e scrivo da un telefonino di cui fatico a individuare l'esatta ubicazione del display.

Come già sapete, venerdì mi hanno sottoposta a un'intervento chirurgico che potevano anche eseguire prima ma, come sostiene una mia amica, le cose semplici non fanno per me, ho bisogno di emergenze nazionali altrimenti m'impigrisco.
Comunque, l'idea era di restare in ospedale fino ad oggi (vitto e alloggio gratis, battono la fobia degli ospedali: non credevo ma è così).

Ci hanno tagliuzzati in tre, poi hanno chiuso la sala operatoria... chi c'è, c'è, gli altri fanno da sé.
Due uomini e io, sistemati in camere singole d'isolamento per via del coronavirus, sul quale preferisco non dilungarmi se non per spiegare alcuni comportamenti bizzarri degli operatori sanitari (che comprendo come nemmeno immaginano).

Stare sola in una stanzetta in stile minimalista, non mi è parso un gran disagio; ammetto che un po' di magone si è affacciato, ma giusto qualche momento. Cioè, che medici e infermieri avessero l'aria di volersi avvicinare solo con droni radiocomandati, mi ha fatta sentire lievemente sola, abbandonata e un filo infettiva. Soprattutto, nonostante la mia brama di "lasciatemi stare" , avrei preferito la porta aperta per poter vedere almeno i due signori che con me dividevano l'area più lontana dall'ingresso del reparto.

Sabato mattina, mentre cercavo di ricordare il testo del Mazzolin di fiori, tanto per verificare lo stato mnemonico post-anestesia e non pensare alla sensazione di essere finita in un romanzo capace di riunire le atmosfere di Cecità di Saramago e i regolamenti di Comma 22 di Heller (se non li avete letti, ve li consiglio entrambi perché sono dei veri e propri capolavori letterari), sono arrivati due medici e un'infermiera (avevo scritto "ingermiera", vedi a volte i lapsus), hanno aperto le porte e i pazienti hanno potuto incontrarsi visivamente... in quei casi il pudore emigra: sederi al vento, capelli passati nel tunnel del vento, padelle in bella vista; ci si sorride e saluta con la manina.
Medici e infermiera sembravano colti da un briciolo d'ansia, io mi sono adeguata per empatia e per naturale predisposizione.

"Chi riesce ad alzarsi, può andare a casa", hanno detto.
Orpo! Mai che riesca a mangiare gratis! Ho visto solo un tè non degno di portare questo nome, con fette biscottate che ho fagocitato ingoiando persino un pezzo di imballaggio in plastica più saporito del tè.

Un tizio, fresco d'intervento d'ernia inguinale, ha guaito parecchio; l'altro pareva una tartaruga rovesciata sul letto, mentre recitava un mantra che suonava "Maroooò chemmmale"; io sembravo la Torre di Pisa appoggiata alla parete mentre allungavo una manina, colta da acuto tremore, verso il sostegno delle flebo.

"Mi gira la testa" bisbigliavo a me stessa e all'infermiera che se ne stava a distanza di sicurezza; i capogiri, nella mia personale accezione, preludono sempre ad attacchi di panico di varia intensità, e a mio parere ne stava arrivando uno formato magnum.
La mia testa sbucava lievemente dalla porta, il medico chiedeva cosa diamine stessi aspettando, io raccontavo la triste storia dell'agorafobia allo scarno pubblico (grande solidarietà, comunque... E invidia: "certo che voi, in questo periodo, siete i più fortunati"... E infatti sono in un ospedale contaminato e ho paura ad affrontare il corridoio per uscire, che culo!).

Tre persone, tre estranei uniti solo da punti di sutura variamente dislocati, parevano fare a gara e, lo confesso, l'idea di dare forfait non mi pareva malaccio (donna esile, fragilità psicofisica, attacco di panico in rapido avvicinamento... chi potrebbe condannarmi in caso di rinuncia? Fosse poi la prima volta che dico un no).
Non che gli altri due andassero alla grande, io almeno non lamentavo dolori.

Stavo giusto approvando una mozione tra me e me per prendere l'ansiolitico che da 24 ore latitava dal mio corpo e rimettermi a letto, quando ci hanno informati che, nonostante la degenza prevista fosse più lunga, prima ce ne andavamo e minore era il rischio di un eventuale contagio da coronavirus.
Oplà! Tutti in piedi come novelli Lazzari, resuscitati e sanati nel corpo e nello spirito. Ci siamo vestiti con fatica e con risultati francamente non meritevoli d'essere ricordati, scarpe da ginnastica con lacci in libertà, calze contenitive sotto le braghe...  e via!

Ci siamo salutati avvicinando la punta dei nostri mignoli, immediatamente passati sotto il flacone di germicida, e fuori di corsa. Sulla "corsa" sto esagerando a fini narrativi, più che altro si strascicava i piedi e anche io ho coniato un mio mantra di dolore... Ma il panico? Eh, cari, il panico non ce la fa più. Lo vedo ogni giorno deperire sotto i colpi della stanchezza e delle gomitate sui testicoli che gli arrivano dalle paure reali, quelle con il fisico e la determinazione alla Attila.

È da più di un anno che viene richiamato quotidianamente da urgenze mica da ridere.
Regge ancora, questo sì,  tuttavia non mi stupirebbe se decidesse di andare in pensione per raggiunti limiti d'età e di sopportazione.
Forse... Non è più un accompagnatore necessario?






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