Sogno/incubo in mutande

 

Mi sono spesso lamentata di sognare d’essere in mezzo alla strada senza mascherina e di provare l’imbarazzo tipico di quando il mondo onirico ci esibisce nudi nella pubblica piazza.

Poi ho sentito di numerosi casi analoghi e forse (dico “forse” perché vorrei riconoscere alla mente ancora un po’ di pietà nei miei confronti) le celluline grigie hanno elaborato un piano più crudele per farmi svegliare sudata come un facocero.

Ed eccomi a raccontarvi il mio ultimo sogno… che qua ci divertiremo anche a scriverlo (boh), ma mi ha parecchio angosciata. Diciamo che in assenza di psicoterapeuta, ve lo beccate voi.

Premetto che voglio un gran bene a mio padre, ma effettivamente mi ha sempre ricordato uno scienziato pazzo, con la conseguente soggezione che tale percezione si porta dietro.

Il sogno:

Mio padre è in uno studiolo a baloccarsi con ampolle, matracci, becher, eccetera. L’arredamento sembra rubato da una stampa di fine Ottocento. Mi sta dicendo che è stato un mio amico a prestargli quello spazio. Io mi sento parecchio confusa, ma anche curiosa come una scimmia.

E allora entro in una sorta di bugigattolo, dove dal pavimento al soffitto ci sono scatole impilate, etichettate, numerate. Ne apro una e ci trovo un candido coniglio evidentemente vittima di crudele vivisezione.

Inorridita, immagonata, con la tessera della LAV, decido di scappare.

Eh, no. Alla porta c’è un altro uomo che tenta di bloccarmi. Inizio a scalciare. In effetti, nella realtà, so di avere poca forza nelle braccia, quindi delego alle gambe le azioni di difesa: mi esibisco con calci presi in prestito dai film di e con Bruce Lee; a lui riuscivano meglio, tuttavia.

Torniamo al sogno: nella lotta adotto la tattica dell’anguilla, cioè mi dimeno e striscio sul pavimento. Il tizio, nel tentativo di bloccarmi, mi toglie scarpe e pantaloni, ma schizzo via. Mi accorgo di aver perso non soltanto indumenti abbastanza utili, fosse anche solo per entrare decorosamente in panetteria, ma anche lo zaino con telefonino e la mascherina.

Corro verso lo studio dell’amico di cui sopra: sala d’attesa piena, tutti con la mascherina, io sollevo il maglione per coprirmi naso e bocca ma - per il principio fisico che determina che se sollevi una cosa sopra si solleva anche sotto, partecipando a quello che possiamo definire “movimento verticale” - esibisco un intimo molto dissimile da quei graziosi completini firmati Victoria Secret.

Imbarazzo. L’amico entra più volte chiedendo “chi è il prossimo?”. Mentre tento di adattare un maglioncino a miniabito con dispositivo anti-Covid incorporato (non ci riesco, è chiaro), lo chiamo e non mi sente. Una donna tenta d’infilzarmi con un ago, un'altra di abbassa la mascherina esibendo incisivi marci alla Johnny Rotten e mi sputa sulla bocca, altri bofonchiano che sono contagiosa.

Scappo anche da lì e corro per scale con mancorrenti arrugginiti che cadono al mio passaggio. Nei miei sogni ci sono sempre innumerevoli scale, nulla di nuovo, è stressante ma ci sono abituata.

Quando arrivo in strada non c’è un’anima, nemmeno auto parcheggiate, tranne la mia di cui non ho le chiavi. E non ho il telefonino. E, a dirla tutta, non so dove sono.

Fortuna che è suonato il telefono e mi sono svegliata.

Quindi, quando ho pensato che nei sogni l’assenza di mascherina avesse sostituito la nudità, mi sbagliavo. Le angosce si sommano sempre, tocca farsene una ragione; non esiste che una escluda l’altra, nei sogni come nella realtà.

E quando, se, casomai, vi dirò che la pandemia non mi turba più di tanto, fatemi una pernacchia; ne avete facoltà.

 

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