Soluzioni alternative per dimostrare le proprie inettitudini: l'arte culinaria
Sono in crisi, le insicurezze sono entrate al galoppo e i dubbi si sono moltiplicati. Così, come da libretto delle istruzioni del mio pessimo carattere, sto mettendo in discussione un paio di cosette; nulla d’importante: lavoro, stato civile, luogo in cui vivere. Se decido di cambiare anche il colore dei capelli mi toccherà rifare la carta d’identità, per capirci.
Tutto è iniziato con la consapevolezza di faticare come un mulo a fare l’unica cosa che sapevo fare; ma di questo vi parlerò tra qualche giorno, appena avrò finito di elaborare il lutto per un’attitudine che solo un miracolo potrebbe far risorgere; peraltro, il periodo è quello giusto, incrociamo le dita.
Allora, se un’abilità
se ne va, tocca cercarne un’altra: questa è la mia filosofia assai contorta
come tutto il resto. E se devo dedicarmi a qualcosa di nuovo voglio che sia
difficile, altrimenti non mi diverto (e questo si chiama masochismo).
Cos’è
particolarmente ostico per me?
Cucinare!
Non sono capace
e lo detesto abbastanza; non fosse per lo stomaco disastrato, che mi fa soffrire
parecchio, vivrei di panini. Tuttavia, tutti mi dicono che è una delle attività
più rilassanti che mente umana abbia mai concepito, indi mi ci butto a pesce.
La scorsa notte, preda di un usuale attacco d'insonnia, decido finalmente di rilassarmi con l'arte culinaria e di iniziare con qualcosa di facile.
I biscotti!
Lo
scorso Natale, una cara amica mi ha mandato dei buonissimi Gingerbread, detti
anche Pan di zenzero, con allegata la ricetta e lo stampo a forma di omino che
mi mette allegria (casomai poi lavorerò, con l'aiuto di uno specialista, sulla soddisfazione che mi procura
addentare dolci dalla forma umanoide).
Sistemo sul tavolo gli ingredienti.
Mi manca lo
zenzero.
Vabbè, farò dei
Bread senza il Ginger. Io mi adatto, è una delle mie rare virtù.
Per fortuna, le mie gatte non sono ladre di cibo, quindi posso lavorare tranquilla. Ma appena mi allontano un attimo, trovo Lisbeth con la testa infilata nel bicchiere in cui stava riposando, sciogliendosi, non lo so cosa diavolo stesse facendo, lo lievito (che nella formula orale insisto a pronunciare “il lievito” perché mi suona più gradevole).
Non mi
arrabbio, mantengo una calma zen e mi ripeto che cucinare è rilassante.
Purtroppo, lo lievito per dolci è finito, ma userò quello per pane e pizza: “la struttura molecolare non cambia di certo”, mi dico.
Cerco di formare
la “classica fontana”, che a me non sta in piedi. C’è farina ovunque, mi
scivolano gli occhiali ma tengo duro… e mi rilasso.
Sbatto con foga
poco zen una serie di liquidi e uova, gli schizzi arrivano ai capelli e penso
ai cuochi della tv: loro hanno quel buffo cappello bianco, io mi copro con il
cappuccio della felpa con la certezza di somigliare più a una black bloc che a
Cracco (che comunque mi sta sull’anima).
Dal momento che la fontana mi è venuta priva d’entusiasmo, il liquido che verso al centro inizia a tracimare, come se la farina fosse idrorepellente, e a colare sul pavimento.
Qui la calma si
allontana un cicinin dalle prelazioni della mente. Ovviamente le gatte non aspettavano
altro che di passeggiare sulla schifezza finita a terra, così da renderla
uniforme in tutta la casa.
Intanto
assaggio l’impasto e ricordo con infinita nostalgia mia nonna che, quando ero
piccina, mi ricordava di non farlo altrimenti mi sarebbe venuto mal di stomaco.
Gusto pessimo,
consistenza che ricorda quella del marmo (infatti credo mi si sia scheggiato un
dente già provato da altri incidenti).
Questa cosa non
la so fare e sospetto d’essermi rilassata di più nel lontano 1992, durante un ingorgo nel Karawankentunnel.
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