Fuga dal virtuale
Un’illuminazione.
Anche io ho avuto la mia modesta, seppur potente, illuminazione.
Stavo seguendo
due videoconferenze e, pur essendo ormai discretamente abile nella pratica del
multitasking (tipo vestirmi mentre fumo o fare un’intervista mentre sono impegnata
a scegliere la verdura al mercato), non sono riuscita a cogliere alcunché di
entrambe.
Mi sono accorta
d’essere distratta da un pensiero molesto, una sorta di film mentale che mi
proponeva fotogrammi assai demoralizzanti di ciò che sta diventando la mia
vita. E tra un'immagine e l'altra, fantasticavo... Oh, se l'ho fatto!
Ormai, da
tempo, lavoro anche nei fine settimana; nel tempo libero scrivo, e quando mi
guardo un filmetto (con copertina sulle ginocchia e tisana, come si confà a una
signora della mia età) tengo accanto il telefonino.
Telefonino che
non mi abbandona nemmeno la notte, benché sia refrattaria a tenere dispositivi
elettronici dove dormo. Sta accanto al piatto mentre mangio e in tasca
dell’accappatoio mentre faccio la doccia.
L’attenzione a
messaggi e altre diavolerie è sempre alta, somiglia quasi a uno stato d’allarme
perenne.
Mail, SMS,
social, altre applicazioni di messaggistica istantanea, video call… non so se
ci avete fatto caso, ma a lungo andare ci si sente robotici, si ha l’impulso di
guardarsi allo specchio per controllare di non avere un ripetitore sulla testa. Ecco un'altra dipendenza, e questa non mi fa sentire meglio.
Tutto ciò è
ansiogeno, brutto, parecchio avvilente. Il rapporto qualità-tempo presenta
percentuali spaventose che indicano che il tempo non è più di qualità.
Più di una
volta sono stata tentata di autobannarmi da tutti i social, le varie
piattaforme, le chat. Anche ora, a tratti guardo il mio profilo Facebook con il mouse puntato su "disattiva il mio account": eliminami, cancella la mia presenza da Messenger, spegni le macchine che mi tengono in vita su Internet, voglio l'eutanasia.
Mi sono detta “fanculo!
Se ho voglia di raccontare qualcosa, telefono a un’amica, scrivo una lettera,
mando un piccione”, poi ho ricordato a me stessa che tutta quella roba lì la
uso prevalentemente per lavoro. Ho quindi meditato di crearmi un profilo
farlocco come via d’accesso per i profili professionali, ma anche questa
soluzione è stata bocciata.
Ho spento modem
e telefonino per un intero fine settimana, e mi è salita l’ansia delle urgenze,
delle comunicazioni “vitali”.
Ora, è un fatto
che nutro una profonda gratitudine al mondo digitale, senza il quale non avrei
più avuto modo di svolgere il mio lavoro a tempo pieno (causa fobia sociale, agorafobia o quello che è), conoscere persone interessanti a cui voglio bene, fare la spesa online quando proprio non ce la facevo ad uscire. Quindi
ringrazio, ma non posso fare a meno di mettere su una bilancia il tempo dedicato
al virtuale con quello della vita reale. Inizialmente, anni fa, ritenevo abbattesse
i "tempi morti”, ad esempio quelli trascorsi in auto per andare e tornare da un
congresso o da un’intervista; ora mi mancano quelle ore a guardare i vari
panorami della città, magari fermandomi sotto casa di un’amica, suonarle il
campanello e fare due chiacchiere davanti a un tè.
Erano momenti
preziosi e mi parevano tempo perso. Adesso il tempo è scandito da avvisi
sonori, bip fastidiosi che annunciano l’inizio di qualcosa che non posso
perdermi: gli appuntamenti si accavallano, tutti trasmettono qualcosa in
diretta, e tocca farlo anche a me.
Ho sempre desiderato
farmi vedere e sentire il meno possibile, e mi ritrovo con la faccia tirata, a
sorridere non so a chi, in qualche diretta Zoom, Facebook, Instagram, YouTube e
chi più ne ha, più ne metta.
IO SONO
ANALOGICA! La mia mente è analogica, la mia generazione è analogica. Amo le
macchine per scrivere, i taccuini e le matite a mina morbida, la penna che mi
hanno regalato a Natale, lo stravaccamento sul divano ascoltando un vinile e
conversando con qualcuno in carne e ossa di cui posso osservare la mimica dell’intera
figura. Amo vedere chi mi vede.
Odia l’ansia
che mi genera dover partecipare a una diretta o il semplice non ricordare dove
ho posato il telefono. Fumo di più, spesso consumo i pasti davanti a uno schermo, avverto un
senso di solitudine che non mi appartiene.
Dov’è, qual è
la qualità della vita oggi? La pandemia ci ha ancora più esposti a questo
delirio. D’altra parte, come si potrebbero mantenere i contatti in epoca di
mascherine e distanziamento? Quello che mi chiedo è: quando il Covid non sarà
più un problema, riusciremo a tornare alla vita di prima?
Boh. Ciò che so
è che durante le due conferenze in simultanea, ho sentito quasi nulla perché la
mente mi ha portato altrove. Nello specifico mi sono ritrovata in una casa vista sul sito di un’agenzia immobiliare: entroterra ligure, in alto, interni
orientaleggianti con tanto rosso che mi piace, da ristrutturare, piccina ma uno o due amici li potrei ospitare a vita (con cani, gatti, eccetera; ci si stringe un po', che ci vuole?), da una finestra si vede una
fetta di mare, poi bosco… a mio parere, lì non c’è campo, il telefono arriverà
a una tacca, internet faticherà.
Desidero che nella mia vita ci sia qualità, desidero tornare me stessa: analogica.
P.S. Ho iniziato anche io a contare i like... fa tristezza. Finirò per volermi bene in proporzione ai pollici alzati?
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