Storia di una storia che forse non finirà mai
ALLARME: è il pezzo più lungo che abbia mai scritto.
CONTINUARE SOLO SE FORTEMENTE MOTIVATI.
Sono dell’idea che se una cosa nasce male non può finire bene.
Per dire, una o due mie relazioni sono iniziate male e non sono finite in tragedia solo perché ho un carattere adorabile. Tuttavia, anche io ho qualche difettuccio, tra i quali spicca una testardaggine snervante per me e per gli altri.
E la premessa è fatta, ora passo al succo di questo mio pezzo che scrivo perché vorrei un vostro parere, consiglio, riflessione (astenersi perditempo).
Di norma, nella scrittura, tendo alla rapidità: ho un’idea… tac! Massimo tre mesi e deve essere su carta. Poi impiego altrettanto tempo nella revisione e a cambiare continuamente parere sul fatto che ho scritto un’opera da Pulitzer o una schifezza che fatico a leggere pure io.
Non vorrei dirvelo, ma questa è un’altra premessa (mi escono in pratiche dispense).
Eccoci: tre anni fa ho avuto un’idea. Se proprio devo essere onesta, l’idea l’ha avuta una brava professionista del settore che mi ha consigliato di sviluppare un mio post pubblicato su Facebook (mentre c’era mi ha suggerito il titolo; il più mi pareva fatto).
Ho iniziato a scrivere quella che nella mia testa doveva essere una short story, robetta da archiviare nel giro di un bimestre. Da lì è iniziata una serie di sfortunati eventi, alcuni realmente tragici e dolorosi, altri banalmente surreali, che mi hanno condotta al presente, qui e ora.
Per farla breve: periodo orribile, seguito da un momento di calma ma ancora contaminato da brutti ricordi e conseguente accenno di depressione; lo stile è andato a modificarsi e con esso la trama: dalla commedia alla tragedia in un amen.
Successiva decisione di privilegiare la vita reale, con accantonamento del progetto. Vita reale non così entusiasmante: inizio a scrivere un altro romanzo.
Mi ammalo, torno al primo romanzo; ricovero, scatta il lockdown; torno a casa, riprendo a scrivere, nuovo ricovero.
Mi sono fatta portare di contrabbando il manoscritto in ospedale, del quale discutevo con il personale che mi ha dato delle idee niente male... soprattutto la simpatica distributrice di colazioni, la quale sosteneva che bere, appena svegli, un cicchetto di grappa tiene lontano il covid; ma poi ripeteva “ce copa tuti” (dal veneto, “ci ammazza tutti”).
Abbandonato l’ospedale in fretta e furia, perché nel frattempo mi sono trovata sola e negativa (no, eravamo in due; c’era anche un tizio parecchio sofferente per un’ernia inguinale grossa come un cocomero), in un reparto invaso da gente sprizzante positività, che tuttavia pareva poco contenta.
Dimentico nell’armadio i fogli scritti durante le interminabili nottate con flebo di antidolorifici e antibiotici (mica pensavamo di sfuggire a un’infezione ospedaliera?). Avrei potuto farmeli allungare, con una canna da pesca o una catapulta, da un’infermiera ma ho detto “no, buttate via”; solo in seguito, quando mi sono ripresa, ho ricordato che lì c’erano tutte le note, i tagli, nuovi personaggi che sicuramente facevano cose strabilianti che non ricordavo più.
Presa da sconforto decido di accantonare il romanzo e mi dedico allo studio del giro di DO alla chitarra: risultato imbarazzante. Torno al romanzo, decido di spostare nel cestino (prontamente svuotato) i vecchi file e riscrivere tutto da capo. La trama mi diventa sempre più triste e rabbiosa, a mia insaputa o quasi.
Decido di uscire di più (perché era meglio stare in casa) e scrivo su fogli volanti e, prevalentemente, sul telefonino. Il telefonino mi cade nella vasca da bagno e muore. Non si salva nulla, nemmeno alcuni vecchi messaggi romantici a cui tenevo molto.
Ricomincio da capo e inizio ad essere un po’, come dire… incazzata? No, di più: odio quella storia, come la sto raccontando, la letteratura in generale e anche me stessa. Chi mi gravita attorno insiste nel convincermi a lasciare perdere, passare ad altro (un’altra storia o il ricamo a piccolo punto) perché inizio a dare segni di pericoloso squilibrio (insonnia totale, irritabilità, repentini sbalzi d’umore, aggressività e tanta paranoia, paranoia a sacchi).
Dico a tutti che ho accantonato il progetto, ma ci lavoro in segreto (con occhiali scuri e bavero del cappotto alzato), con qualche complice che mi ostino a chiamare consulente.
Nel frattempo, ogni volta che stampo nuovi capitoli accadono incidenti di varia natura: una volta i gatti ci si fanno le unghie e mi ritrovo una roba che pare uscita dal distruggidocumenti, un’altra ci poso la sigaretta accesa e rischio di dare fuoco alla casa (qui, un bravo psicanalista – ma anche uno molto mediocre – avrebbe cose da dire).
Muore anche un computer e tocca andare a salvare il salvabile.
Ridendo e scherzando (mica tanto) la mia short story arriva a superare le 600 pagine, ma la termino.
Troppo lunga, tocca tagliarla. 380 pagine, ancora troppo lunga.
Taglio e ritaglio e ne esce un mostro scoordinato, scombinato, sconclusionato, scorbutico; tutto molto “sco” e anche io sono abbastanza sco….nata. Non va bene, non piace, la mia agente mi dice gentilmente (perché è una persona estremamente dolce) che è da buttare.
Ok, lo butto, tanto ne ho un altro quasi finito.
E invece no, ci vedo del potenziale. Ma soprattutto, davanti a un rifiuto mi intestardisco ancora di più: riscrivo tutto da capo, cambio stile, cifra narrativa (qualsiasi cosa significhi), dalla tragedia ritorno alla commedia, lo assottiglio, tenendo solo alcune parti della versione orinale… ma la versione originale ce l’ho solo in pdf e convertendola in word (con quei programmi gratuiti che valgono quanto costano) si perde la formattazione, parte della punteggiatura, e scrivendoci sopra mi si cancellano interi paragrafi.
Non importa, ho pazienza da vendere e lunghe notti da dedicare al manoscritto che ora inizia finalmente a piacermi. Due editori mi chiedono di leggerlo, ma in cartaceo.
“Certo!”, rispondo col piglio di una che sa quello che fa. Toner finito, ho il ricambio; lo infilo male nella stampante… salta tutto, ma non prima di sputarmi fuori una decina di pagine che rileggo e… non mi convince del tutto.
Ieri, in un momento di pausa dal lavoro, mi sono messa a scrivere all’aperto e una folata di vento ha sparso in giro gli appunti.
Non credo un granché nei segni del destino né nei messaggi dell’universo, ma le mie certezze cominciano a vacillare. “Passo ad altro”, decido infine. E in quel momento mi vola su un dito una coccinella… arancione, non rossa portafortuna, perché anche lei ci va cauta nel decidere il futuro di questo romanzo.
Ci si mette anche un’amica che ventila la possibilità che questa sia una prova: se insito ne uscirò vincitrice… “forse, o magari impazzisci del tutto; ma se non concludi non lo saprai mai”, dice. La gatta nera mi segue ovunque e sembra controllare che non molli.
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