Qualcosa di bello può capitare.

 

C’è quest’uomo… nel quartiere lo si può incontrare facilmente, giorno e notte (è un essere da esterno), e mi pare di avervene già parlato. È basso, più di me, ha la testa rasata, il viso aspro tempestato da tatuaggi di quelli caserecci: un impegnativo triangolo nero nel centro della fronte, poi croci e lacrime a profusione, qua e là, vagamente deturpate da profonde rughe; indossa una canottiera bianco-grigio a costine o, come oggi, una canotta nera (estate e inverno sta smanicato, lui è coibentato, presumo), braghe sborse e scarpe che potrebbero essere ciabatte o viceversa. Credo sia sprovvisto della maggior parte dei denti nel distretto frontale e dimostra un’età variabile tra i 50 (portati malissimo) e i 70 (non portati eccelsamente nemmeno quelli). Soffre di una tosse che, se usata con una buona strategia di marketing, potrebbe rivelarsi una vincente campagna di dissuasione dal tabagismo.

Sospetto sia perpetuamente sotto i fumi dell’alcol o che quest’ultimo gli abbia provocato danni irreversibili.

Una mia vicina ne è terrorizzata, dice che basta fissarlo per un secondo e diventa aggressivo; quando mi ha vista parlarci insieme si è preoccupata, mi ha persino sgridata.

Non so, con gli anni abbiamo stretto una sorta di strana amicizia, iniziata cedendo alla sua richiesta di una sigaretta.

Quando passeggio di notte, capita che facciamo dei tratti di strada insieme e parliamo un po’ di tutto… della guerra, di politica, di Dio e della vita in generale con tutta la gamma di grane che comporta.

Poco fa sono uscita per acquistare qualche biscotto (calo di zuccheri o carenze affettive). Uscendo dal negozio ho visto una pantegana agonizzante e mi è preso il magone: ultimamente sono soggetta ad attacchi di pianto per i motivi più svariati; così mi sono seduta su un gradino a lacrimare un po’ ed è arrivato lui.

“Come stai?” gli ho chiesto.

“Come stai tu?” ha risposto con un tono che sembrava rabbioso.

“Non so, è tutto così stancante…”.

Mi ha fissata col suo sguardo etilico ed è rimasto per un po’ a ciondolare tra un piede all’altro.

“Io e te siamo ancora giovani per essere già stanchi” mi ha detto.

Ma quanti anni ha? Mi sono domandata… e subito dopo: ma io sembro così vecchia? Sarà tempo di tatuarmi un serpentello di lacrime sulla guancia?

“Ti capita mai di essere stanco di vivere?” gli ho chiesto. E qui mi è entrato in modalità “unità di crisi”.

Mi ha accarezzato un braccio, ho sentito dita callose sulla pelle, e si è seduto accanto a me.

Voce severa e occhi da padre che ti sta rimbrottando: “Non devi avere questi pensieri!”. Poi il tono si è addolcito: “Dall’altra parte potrebbe essere peggio e qui può capitarti qualcosa di bello e ti potrebbe fare dispiacere non esserci”.

Ho annuito.

“Vuoi una sigaretta?”.

“Hai le Camel?”.

“No, in borsa ho solo quelle leggere”.

“Quella è merda! Per forza non c’hai voglia di vivere”.

Abbiamo riso. Sì, gli mancano gli incisivi, tutti.

Mi ha afferrato il braccio per farmi alzare: “Va’ a casa e bevi qualcosa che ti fa bene”.

L’ho salutato e arrivata all’angolo mi sono voltata. “Ciao, Alessandra” ha urlato.

Si ricorda il mio nome, perché io non ricordo il suo? E perché appena arrivata a casa mi sono disinfettata il braccio?

C’è il caso che lui, così sciagurato, sdentato, selvaggiamente tatuato, sia una persona migliore di me.

Poco fa, mentre mi preparavo un tea, ho visto che sul balcone le zantedeschie sono sbocciate. Sì, può capitare qualcosa di bello.




 

 

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