Osservare come fosse baseball.

 



Mi accorgo ora di non essere passata da queste parti per più di due mesi. Come state? Tutto bene? 

Potrei affermare di trovarmi a corto di cose da raccontare o di indulgere in una particolare pigrizia, e non direi il falso. Potrei persino avventurarmi in ambito psico/sociale e ammettere che sono un po’ ghoster, perché è vero ma di questo parleremo, casomai, in un altro momento (mi sto interessando all’argomento e avrei due o tre idee da sottoporre agli studiosi del fenomeno).

Ci sta tutto, compreso il fatto d’essermi dimenticata del blog, ma aggiungo un dettaglio che presumo corrisponda alla motivazione primaria: il virtuale non mi diverte più… social, messaggistica, chat, computer ormai tendo a usarli (usare, sì, questo è il verbo corretto) per lavoro… e di ciò li ringrazio; ma leggere per leggere, preferisco un romanzo; guardare per guardare, scelgo un film in tv o rivedere per n volte elevato all’infinito un episodio di Poirot o Barnaby; comunicare per comunicare, preferisco una lunga telefonata oppure incontrare di persona i miei interlocutori.

C’è anche che spesso scrivevo sull’onda d’impressioni e riflessioni suggerite dall’osservazione dell’altrui comportamento e, di riflesso del mio; o viceversa.

Da un po’ di tempo, mi sono accorta che guardo le persone, il mondo in generale, come una partita di baseball. E qui parte la narrazione aggrovigliata al ricordo.

Abito non molto distante dallo stadio comunale di baseball e da ragazzina ci passavo spesso (anche ora, a dire il vero, ma sono sempre in auto, concentrata su mete precise e sul non perdermi per raggiungerle).

Mi piaceva sentire quei suoni e, di sera, vedere quelle luci intense. In quegli anni avevo iniziato a frequentare lo stadio per seguire la squadra del cuore; ci andavo con qualche compagno di scuola ed ero veramente appassionata, ma pativo… mi sfogavo con urla e salti, ma mi saliva l’ansia e un filo di depressione (squadra problematica, agevolante il senso di precarietà e improbabilità che comunque sono insite nel mio essere). Mentre col baseball… da fuori mi pareva tutto più sereno, armonioso, rilassante.

Fu così che, ad un certo punto, iniziai ad andare a vedere qualche partita. Ci andavo sola, come nei viaggi in treno: se qualcosa mi piace molto, preferisco godermelo in solitudine. Sedevo sui gradini, con il cappellino della squadra di calcio (anche perché non tifavo per un team in particolare, chi vincesse non era un elemento importante), visiera abbassata a filo con gli occhi (non di lato da badola), un sacchetto di patatine (preferibilmente i Dixi, che fanno meno rumore, durano di più e titillano con maggiore baldanza le papille gustative), e iniziavo ad allontanare ogni tensione. Non per nulla insisto a collegare il baseball con la beatitudine.

Perché vi sto raccontando questo ricordo?

Mah, sono in un periodo di forte riflessione introspettiva, mi studio con una solerzia quasi maniacale e mi giudico (non con eccesiva severità, ma lo faccio; cerco anche di cambiare qualcosina e, come ben sapete, è un esercizio piuttosto faticoso che tuttavia va fatto quando le storture diventano eccessivamente ingombranti).

Di contro, forse per una sopravvenuta difficoltà a concentrarmi su due cose contemporaneamente, ho iniziato ad osservare gli altri, i loro comportamenti, ad ascoltarne i pensieri e le idee, esattamente come guardavo le partite di baseball.

Attenzione, non guardo al mondo come a un immenso diamante; per carità, il mondo è un casino, suona cacofonico, manca dell’eleganza e della sobrietà di uno sport che riterrò sempre magnetico.

E allora osservo come se fosse baseball… ah, dimenticavo di dire che non ne ho mai capito le regole né mi sono impegnata a farlo. Uguale, e mi sento molto meglio; meno ansia, meno stress, ogni inning è un soffio.

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