L'anno del treno che non poteva arrivare.

 

Sto pensando all’anno che sta terminando. Sto pensando che è stato un anno talmente strano e complicato, pervaso da fatti più emozionali che materiali, da non riuscire a narrarlo. Sul serio, non saprei da che parte iniziare.

Tuttavia, potrei riassumerlo attraverso un ricordo, disgiunto dai fatti ma equivalente nelle sensazioni.

E allora parto con la narrazione (lunga, temo; nel caso vi fermate qui, vi faccio gli auguri per un buon 2023, e siamo a posto per un anno intero).

L’episodio a cui mi riferisco risale a un bel po’ di anni fa. Immaginate una Londra ancora libera, anche se non per molto, da grattacieli a specchio o vagamente fallici… ci siamo? Bene!

Un mattino mi recai in un quartiere talmente periferico che forse avevo varcato qualche invisibile confine, pur continuando a pagare con le sterline. Non c’era nulla da vedere: palazzoni, strade a tratti sprovviste di targhe che ne indicassero il nome, pochi negozi e molti venditori di strada (di quelli che espongono la merce su una coperta a livello marciapiede), gente (quasi tutti uomini) che mi fissava con una certa diffidenza (cosa strana per gli inglesi, che di solito riescono a ignorarti per talento naturale).

Possiamo dire, senza peccare di esuberanza narrativa, che si trattava di un posto da evitare; mi risultò di una chiarezza abbagliante, peraltro evitando di scomodare l’intuito, quando mi passò accanto un tizio con turbante in testa e una tazza del water sotto il braccio; mi disse qualcosa con tono astioso in hindi o pali o sanscrito (non che per me facesse differenza).

Non riesco a rammentare perché mi fossi avventurata in quella zona, certamente cercavo qualcosa… cerco sempre qualcosa, è una costante che mi mantiene viva.

Dopo il bizzarro incontro con l’indiano decisi di abbandonare la ricerca di qualsiasi cosa fosse e di tornare indietro. Eh, fosse facile ritornare al punto partenza; non ci riesco mai (altra costante). Presto mi accorsi di girare in tondo per via di un senso dell’orientamento difettoso e dell’assenza, all’epoca, di telefonini dotati di navigatore, o di qualche riferimento rintracciabile sulla mappa stradale cartacea.

Finalmente vidi in lontananza una fermata della metro. Bene! Ero sfinita, avevo male ai piedi, mi scappava la pipì, le spalle non riuscivano a reggere il peso dello zaino che, nel ricordo attuale (quindi assai impreciso), mi pare contenesse un’incudine o tutti i volumi dell’enciclopedia britannica (a costo di peccare d’abuso di costanti, ci infilo anche uno zaino eccezionalmente pesante). Inoltre, avvertivo quel particolare malessere che di solito accompagnava lo stato d’allarme prima dell’avvento degli attacchi di panico (col panico, l’allarme è diventato un accessorio immancabile).

Iniziai a trottare rapidamente (per quanto concedessero le vesciche posizionate strategicamente su mignolino e calcagni) verso quella stazione. Notai che la strada d’ingresso era invasa da erbacce alte e poco calpestate, ma al momento non mi parve un indizio significativo, forse per la brama di tornare a casa o forse perché troppo occupata a osservare le ipotetiche intenzioni di chi mi passava accanto.

Dopo aver attraversato quella specie di savana, notai anche che la galleria era immersa nell’oscurità, rotta solo dal penetrare della luce esterna. I tornelli erano generosamente aperti, non avevano alcuna pretesa, sembrava si fossero arresi.

Arrivai alla banchina, mi accesi una sigaretta più per fare un po’ di luce e non cadere sui binari che per reale necessità di nicotina. Strano era strano, ma conosco i disagi delle periferie e mi tranquillizzai cullata dai pregiudizi.

Attesi un bel po’ un treno non sarebbe arrivato. In compenso giunsero due ragazzi con torcia, testa rasata e t-shirt la cui vendita sospetto sia illegale dal settembre del 1945 o poco dopo. Mi parve che il loro posto nel mondo fosse accanto a me; e dovevano esserne felici perché ridevano e urlavano di gioia senza interrompersi per ad esempio, che so, respirare. Dall’idioma privo di costrutto alfabetico, decisi che i due “gentlemen” fossero i diretti discendenti della fiera e nobile stirpe degli hooligans, che in Inghilterra ha (o aveva) un certo peso sociale.

Il guaio è che non ho un briciolo di sangue inglese; da quanto mi è dato sapere vanto (forse) qualche molecola tedesca e persino rom, ma nulla che possa attraversare la Manica, quindi faticavo a comprendere la loro euforia e anche l’idioma, quando finalmente riuscirono nell’intento evolutivo del lessico. Capivo solo che mi chiedevano ripetutamente “Spanish or italian?”.

Rimasi immobile a fissare il buio, cercando d’ignorare quel vociare per percepire l’arrivo del treno… e sapevo che mai sarebbe arrivato.

Lentamente, e sempre accompagnata dai nuovi “amici” curiosi di sapere se fossi più portata per il flamenco o la tarantella, indietreggiai lungo il tunnel, fino a quando una mano mi afferrò un braccio e mi portò fuori. Era un uomo nero, alto e massiccio, con lo sguardo duro. Mi tenne il gomito fino alla fermata funzionante, quella con i tornelli ligi al lavoro, e non disse una parola mentre io ciacolavo istericamente. Fine della storia.

Ecco, il 2022 è stato così (ma senza svastiche, diciamo). Ho speso il mio tempo ad aspettare fiduciosa qualcosa che sapevo non sarebbe mai arrivato; ho presagito sconfitte che erano sulla carta, scritte a caratteri cubitali, fin dall’inizio, e le ho ignorate.

È anche arrivato qualcosa di meraviglioso e inatteso, la mano che mi ha portata fuori dal buio: ho incontrato una persona che, nelle nostre lunghe conversazioni via schermo, ha sempre affermato fossimo anime gemelle, ed ho scoperto che era (ed è) vero; quello è stato un momento indimenticabile e dolce e commovente… ma poi è ripartita, tornando a casa e riportandoci a una distanza di oltre 8mila chilometri (in linea d’aria). Sto continuando a fare progressi nel lunghissimo cammino verso la guarigione dall’agorafobia/depressione/panico perché mi sono decisa ad applicarmi con solerzia agli esercizi in tal senso (non posso dire d’essere guarita, dubito lo sarò mai, ma la qualità della mia vita è decisamente migliore).

Anno difficile, ma sto pensando che… toh, sono ancora viva nonostante in alcuni momenti del passato non l’avessi previsto e, qualche volta, non lo avessi voluto (ora mi fa impressione ripensarci).

Quindi, ho perso tempo ma, a quanto pare, ho ancora tempo; che sia tanto o pochissimo poco importa, conta che ce ne sia. Per il 2023 vedrò di non sprecarne più o, almeno, non così tanto. Cercherò di arrendermi nelle guerre perse in partenza, di non aspettare, di non incamminarmi in tunnel bui.

Ringrazio gli arditi che sono arrivati fin qui. A voi auguro un anno ricco di meraviglia e di tempo di valore.

Baci.




Commenti

  1. Sei anche una luce nella mia vita che mi guida verso la magia racchiusa nella pace e nell'amore. Sei proprio la mia anima gemella. ✨❤️

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