Vuoto.

 

    Nella vita ho avuto una grande fortuna: incontrare persone speciali. Non smetterò mai di ripetermelo e di ricordare che di tutte le ricchezze questa è la più grande.

A volte penso che l’ingresso di estranei che, nel corso degli anni, hanno formato un’affettuosa e presente famiglia, rientri in quella legge fisica detta “della compensazione”… la tendenza spontanea, riferita all’ambito climatico-atmosferico, a riequilibrare nel medio-lungo termine le anomalie.

Qui, il tempo c’entra nulla; tuttavia, metaforicamente, il clima piovoso del mio personale habitat è sempre stato mitigato da raggi di sole capaci di attraversare le nuvole e riscaldarmi.

Uno di loro era un medico, patrigno (ma più padre di un padre) di un’amica; quando mi fu presentato si accorse che ero malata… così, con uno sguardo, cosa che poi scoprii essere un suo portentoso talento. Quella volta mi salvò la vita.

Da allora fu sempre presente: per primo notò che la mia psiche funzionava su binari dissestati e a tratti interrotti, cercò di aiutarmi e credo si sentisse solo in questa impresa destinata a fallire; con la moglie mi aprì la sua casa (anche quella per le vacanze, dove mi spediva quando notava che iniziavo a sbarellare più del solito), e piano piano diventammo amici. 

Ovviamente, almeno per come sono fatta con i miei binari dal percorso incerto, lo elevai a papà surrogato a cui rivolgermi per prendere decisioni importanti o sfogarmi nei momenti di grande crisi.

Con analoga disinvoltura, sicuramente lo delusi; come quando, terminato il liceo, tentò di convincermi a iscrivermi a odontoiatria… “ti aiuterò io a studiare”, disse notando la mia perplessità e sapendo quanto mi risultasse difficile applicarmi nello studio (e in qualsiasi altra cosa, a dire il vero). Presi tutt’altra strada, vidi la sua perplessità, tuttavia organizzò una splendida cena “in famiglia” per festeggiare il superamento dell’esame di stato.

Poi arrivarono i lavori negli ospedali e fui investita dal panico, così andavo nel suo studio a prendere lezioni di medicina; aveva pazienza (non so se i suoi ex studenti potrebbero confermare, ma tant’è), un giorno m’insegnò a leggere una radiografia; anche se mi serviva a nulla, adorai quella lunga lezione e mi divertii parecchio.

A tratti, fingevo di non capire e quando mi fissava con i severi occhi chiari e mi sgridava (perché lo faceva) mi pareva di cogliere l’affetto e l'attenzione che desideravo.

L’agorafobia prima, la pandemia poi, mi hanno tenuta lontana da lui, e dalla sua vera famiglia, per troppo tempo; ci si sentiva al telefono, magari trovavo la scusa di non aver capito i passaggi di uno studio scientifico, spesso sfogavo su di lui le mie piccole o enormi ipocondrie…

Ieri se n’è andato. Per sempre. Potrei inventarmi tutte le scuse del mondo e lui non mi risponderà più.

Ho avvertito un’acuta fitta di dolore fisico, come una pugnalata allo stomaco, che mi ha costretta a piegarmi in due.

Negli ultimi anni sto riempiendo sacchetti di vuoto lasciato dalle persone amate; il suo si è stabilito in uno zaino grande, lo sento pesare sulle spalle.

Ciao Marco.




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