Sognando il silenzio in quartiere rumoroso.
Ed ecco che, come sempre nei giorni
di festa, in quartiere si anima.
Non è quel brusio felice di chi si
gode i momenti di libertà dal lavoro né di chi finalmente può trascorrere tempo
con la famiglia.
No, il mio quartiere è differente.
In nottata, in strada, c’è una rissa,
suono di pugni, d’odio e di corpi che sbattono contro la serranda di un
negozio; tutto in una lingua per me incomprensibile, ma universale nella
fonologia della rabbia.
Così mi alzo, accendo il computer,
metto le cuffie e scrivo o guardo un vecchio film. A Pasqua trovai “L'uomo
dal braccio d'oro”, una pellicola del 1955, con la
regia di Otto Preminger e con un Frank Sinatra giovanissimo e strepitoso
(se non l’avete mai visto, ve lo consiglio con tutto il cuore).
Penserete che quando c’è una brutta rissa, dalla durata decisamente superiore a qualche minuto, si dovrebbe chiamare la Polizia… no, al massimo, quando torna il silenzio, ci si affaccia un attimo per vedere se qualcuno è rimasto a terra, solo, bisognoso di assistenza medica; a quel punto, volendo, si chiama un’ambulanza. Nel mio quartiere si fa così; ci vivo da tutta la vita, lo so, sono leggi non scritte ma assai severe.
Mentre le pentole sono sul fuoco, e mi aggrada fumare una sigaretta sul balcone, inizia la lite famigliare. Lui le dice “non servi a niente”, lei risponde “se non servo a niente, vattene! Sei solo un coglione”, io rientro in casa e accendo la Tv.
Ma per quanto possa alzare il volume, l’astio sonoro vince la
gara. Lui le rinfaccia di dover pure cucinare, lei gli rinfaccia di “essersi
fatto” un’altra, gli asparagi sono a metà cottura, il merluzzo è ancora semicongelato,
da altre parti giunge il frastuono di padelle che terminano il loro volo a
terra.
Però, dovrei ritirare le lenzuola stese e per un po’ non so cosa fare, resto seduta in cucina e medito di chiudere la finestra, tutte le finestre perché, sarà che l’odio chiama odio, ma ora stanno litigando anche in altri appartamenti.
Me ne frego, vado a fumarmi la sigaretta e poi ritirerò i
panni.
Appena mi siedo sulla panchetta, le voci si fanno più forti perché
molto più vicine… credo che mi abbiano vista.
“Vai a salutare la puttana, che ti piace tanto”, urla lei. Lui nega, lei insiste, lui le dà della pazza, lei dice qualcosa da cui evinco che la puttana in questione sarei io. Vorrei difendermi, vorrei fargli presente che sono solo lì a fumare, che non do mai fastidio a nessuno, che la mia vita privata è silenziosa perché le liti mi turbano tanto e io sono una persona taciturna, che da casa mia non giungono mai urla, che persino le mie gatte non miagolano (una per problemi fisici, l’altra per solidarietà). Vorrei dire che le litigate mi provocano ansia per via di antichi ricordi, quegli stessi ricordi che hanno fatto di me una donna incapace di urlare (sul serio, non ci riesco, mi si chiude la gola).
Mi piacerebbe che anche loro fossero stranieri, giusto per
non capire.
Ma taccio, guardo le mie piantine in vaso: è un esercizio che mi fa bene, mi rilassa, anche se colgo d’invidiare un po’ i vegetali che quieti continuano a crescere senza perdere una foglia solo perché nel quartiere mancano le risate e abbonda la miseria degli affetti.
E allora, rientriamo (le gatte e io), chiudo tutto, prendo quello Xanax che oggi speravo di evitare, cerco il canale giusto e mi preparo a una cena piacevole con Drew Richards e i suoi viaggi nella verde terra d’Albione, alla ricerca di improbabili pezzi d’antiquariato. Vorrei tanto essere lì.
Più tardi inizieranno i fuochi d’artificio, qui è sempre Capodanno… qualche sera fa li hanno piazzati nel centro esatto dell’incrocio, le auto in transito non hanno transitato per un po’ e le finestre sono rimaste chiuse perché non si sa mai.
Voglio bene al mio quartiere, sul serio, ma sogno il silenzio rotto solo dai suoni della natura; quelli non provocano ansia. Un giorno, so che me ne andrò e forse ripenserò con nostalgia a questa casetta incastrata tra palazzoni.
La cena è pronta.
Buone giornate di festa a tutti voi.
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