Zuzù.
Non ho mai scritto un elogio funebre per una persona, e prevedo che mai lo farò. Ho scritto il mio necrologio, che all’epoca allarmò qualche amico, ma è una cosa del tutto diversa.
Tuttavia, ora mi scappa qualche riga sulla compagna d’avventure che mi è stata accanto, per più di vent’anni.
Sabato se ne andata Zuzù, la Cinquecento azzurra che all’improvviso, e con un una fiammata da affumicare l’intero quartiere, ha concluso la sua ultima corsa.
Per motivi che mi sfuggono, ma sui quali lavorerò con “una brava”, ricordo il nostro primo incontro con una nitidezza che, ammetto, non posso paragonare ad alcun appuntamento con un umano.
Mi avevano dato una dritta: un’auto usata a prezzo ridicolo e in buono stato. Quando arrivai alla concessionaria, dalla vetrina ne vidi due: una nera e l’altra azzurra. Adoro il colore nero mentre l’azzurro mi dice poco, ma pregai che fosse la seconda. Ricordo che entrai incrociando le dita e preparandomi a chiedere comunque il prezzo di quella specie di ferro da stiro col muso piatto e, apparentemente, insignificante.
Era lei! Ci piacemmo da subito.
All’epoca io stavo poco bene, anzi parecchio male.
Lei non era in migliori condizioni, ma in due decenni ci siamo prese cura una dell’altra. Mi ha aiutata a stare meglio, molto meglio.
Ha ospitato persone per me molto importanti: gli amici più cari, la mia agente tedesca che la trovava divertente, un grande amore, uno scrittore ultranovantenne che, con uno dei suoi rari sorrisi, disse “Che simpatica macchinetta! Ti somiglia, stimola tenerezza”.
Mi piaceva quando le facevano i complimenti, ero orgogliosa di lei.
Come me, aveva l’inclinazione naturale all’inversione dei parametri comuni. D’inverno godeva d’ottima salute, d’estate non partiva; se le facevo il pieno di benzina pareva triste e dava il meglio in riserva.
I tentennamenti del motore li risolvevo appoggiando la guancia sul volante e bisbigliando parole d’incoraggiamento o più spesso “se ce la faccio io, ce la puoi fare anche tu”.
Ha viaggiato per lungo tempo con una gomma sgonfia, il radiatore bucato e senza la marmitta, perché dovevo recarmi in ospedale all’alba e uscirne troppo tardi per trovare un meccanico o un gommista aperto. Mai un lamento, anche se per via della marmitta imitava alla perfezione il rombo del motore di una Harley-Davidson d’epoca.
Le parlavo, le parlavo molto.
Le raccontavo segreti. Cantavo e mi ha vista piangere, cosa che è capitata a pochi. Ci siamo perse spesso, preso strade sbagliate, eppure mi ha sempre riportata a casa.
A lei ho dedicato un romanzo ed è finita in copertina.
Mi rammarico di non aver mantenuto la promessa di andare insieme a Dublino (ma io non ce l’avrei fatta, lei forse sì).
Oggi, voglio ricordarla allegra nonostante le ammaccature della carrozzeria e i tormenti del motore.
È stata un’amica fedele, un rifugio e una sicurezza, e l’ho amata. Mi addolora soltanto che il suo ultimo viaggio non sia stato con me… ma mi piace pensare che abbia voluto proteggermi da un pericolo.
Se pensate che era solo un oggetto, avete ragione ma io me ne frego (con dolcezza, ma me ne frego).
Ciao Zuzù. Se ci sarà un’altra vita, desidero che mi ci accompagni tu.
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