Sul rancore, l'amore, l'assenza, la consapevolezza del tempo.


“Il tempo ripara tutto”: me lo diceva spesso mia nonna; con lei il tempo non è stato clemente e io non ho mai creduto a questa, come a molte altre, perle di saggezza.

Ho sempre elaborato teorie alternative, snaturato il significato di proverbi e di altri consigli derivanti dall’atavica esperienza popolare. Così, nel tempo, chi mi ha dato motivo d’astio, l’astio se l’è tenuto. “Dimentico ma non perdono”: ecco un altro stravolgimento, una semplice anastrofe che suona quasi come un lapsus, mentre delinea un preciso bug di programma mentale.

Il rancore è un sentimento esecrabile, ma come accade con tutti i sentimenti è assai difficile, se non impossibile, ragionarci e ridurlo a più miti consigli. Sono una persona rancorosa che, peraltro sfoga apertamente il proprio rancore, perché tenerlo dentro produce ulcere gastroduodenali, ipertensione e, soprattutto, ansia e insonnia. Sputandolo fuori perde intensità e poi accade sempre qualcosa che lo fiacca, lasciandolo lì a languire: si scorge quel bagliore di umanità che prima era celato da un mucchio di cose, tipo l’orgoglio.

Così, con il sopraggiungere di una di quelle malattie che sul tempo residuo portano a riflettere, ho riallacciato i rapporti con un uomo che era stato molto importante. Eravamo amici e poi era nato qualcosa di più. Come amici si procedeva benissimo, come “qualcosa di più” era un disastro. Gelosie, litigi, sfoggio di narcisismo da entrambe le parti, rotture e riconciliazione, acuirsi degli attacchi di panico e dell’agorafobia. 

So che non è facile frequentare una persona con disturbi invalidanti, so che non è facile anche solo decidere di frequentare qualcuno quando si soffre di questi disturbi (magari approfondiremo l’argomento un’altra volta, con più calma e chiarezza; non è materiale da maneggiare con superficialità ed esaurire in un amen).

E c’è il fatto che questi ultimi anni si sono portati via persone a cui ero legata da un intenso affetto: sono quei nomi in rubrica telefonica che sai non chiamerai più, perché nessuno potrà rispondere, ma non riesci a cancellare

Ho notato come queste anime, che mi hanno accompagnato per un bel tratto di strada, davanti alla malattia cercassero un contatto con vecchi amici, amanti, parenti, con i quali c’erano stati screzi. E ho appurato come io, di solito un po’ distratta nei rapporti, mi sentissi spinta a recuperare il tempo perduto. Una spinta non dettata dal senso di colpa o dalla pietà, ma dal ricordo di come sono sempre stata bene con quelle persone e di quanto mi sarebbero poi mancate (dolori forti, simili ad amputazioni senza anestesia).

Il tempo non aggiusta, ma insegna. Insegna che non siamo eterni e che quando si è voluto bene, un residuo di quel sentimento resta ed è prezioso, sprecarlo o gettarlo via è un delitto. A questo ho sempre creduto: nulla si distrugge completamente.

Quindi, eccomi, in giorni come oggi, a scherzare, parlare di libri, dei fatti del mondo (magari con opinioni divergenti che mi fanno sempre insistere per poi cambiare repentinamente argomento; è una tattica psicologica, di sopravvivenza, molto efficace… anche di questo parleremo in seguito), a guardarci attraverso uno schermo, sorridendo e promettendo che sì, presto ci rivedremo anche di persona, magari in riva al Po, con un sacchetto di pane raffermo da lanciare ai gabbiani e alle anatre. Eccomi a cercare di dimenticare, e fare dimenticare, la malattia, la diagnosi infausta; a sbiadire i ricordi, fare una cernita e decidere di mantenere più vividi quelli belli.

C’è qualcosa di molto consolate, quasi gioioso, in tutto ciò.

E penso che “il tempo aggiusta tutto” sia una frase non corretta perché monca… “il poco tempo aggiusta tutto”, così mi suona perfetto.


Foto di Valentinsimon0 


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