Ansia, passioni, percorsi di vita…: chiacchierata con Marina Innorta.

 


L’idea era quella dell’intervista: domande brevi, risposte concise, una cosuccia facile da leggere e da scrivere.

Tuttavia, appena vista la mia interlocutrice, ho intuito che la nostra sarebbe stata una conversazione più lunga e articolata del previsto.

Marina Innorta, scrittrice e blogger (My Way Blog), di cui è appena uscito l’ultimo romanzo “La Venere di gesso”, è una donna molto piacevole e profonda, ha un modo singolarmente pacato di raccontarsi e raccontare; infine, mi è parsa di una sincerità sorprendente, almeno per me che sono abituata a “lavorare” con soggetti talmente concentrati nel risultare interessanti da bluffare un po’ (o tanto) sulle loro verità.

Bando alle ciance, ora vi riporto buona parte della nostra conversazione. So che è molto lunga (pur avendo tagliato un bel po’), ma il bello di questi luoghi virtuali, dove nessuno ci vede, è che possiamo andarcene senza imbarazzo quando ci pare.

 

Marina, ti ho conosciuta grazie al tuo libro “La rana bollita”, di cui scrissi una recensione nel 2017 (Ansia, attacchi di panico in un bel libro). Era fresco di pubblicazione e, da allora, quel saggio (giusto definirlo così?) ha avuto un tale successo che è stato rieditato da un editore importante.

“La rana bollita” era una via di mezzo tra un mémoire e un saggio: vita vissuta mescolata con una serie di cose che avevo studiato e che volevo condividere per presentare un po’ d’informazione fatta bene sull’argomento. La vicenda editoriale è iniziata nel 2017 con l’autopubblicazione e la promozione attraverso il mio blog e la newsletter. Ha avuto un andamento strano, direi inaspettato: è piaciuto, le persone lo hanno trovato utile oltre che piacevole da leggere, forse proprio per la commistione tra la vicenda personale e i dati, gli studi scientifici, le informazioni su vari tipi di terapia. 
Di solito, i libri sull’ansia sono scritti da psicologi: manuali che promettono di risolvere il problema; promessa che non mantengono perché si tratta di un disturbo che non passa leggendo un libro. “La rana bollita” era, ed è, un racconto della mia storia, del mio percorso con gli attacchi di panico. Le vendite sono state costanti per diversi anni finché mi è arrivata la proposta di Sonzogno. Così è nata la seconda edizione, arricchita di schede, con esercizi, curate dalla psicoterapeuta Laura Bongiorno.

Poi sono arrivati i romanzi.

Sì, “Polvere d’azzurro” e “La venere di gesso”. Entrambi sono tutta un’altra cosa rispetto a “La rana bollita”.

So che, come me, ritieni che coltivare le proprie passioni sia un eccellente metodo per, non dico guarire (non mi ritengo guarita e ho la convinzione che non lo sarò mai), ma per trovare un equilibrio, smorzare l’ansia e tenere lontana il più possibile la depressione con tutto il suo compendio di inedia, pensieri negativi, eccetera. Noi abbiamo la passione della scrittura, tu hai anche organizzato laboratori per chi desidera avvicinarsi a questa tipologia di espressione creativa.

Sì, ho fatto un laboratorio di scrittura autobiografica perché mi piaceva l’idea di mettere insieme due elementi: la scrittura per se stessi (i diari) e quella per essere letti. Si tratta di realtà diverse, ma mi interessava costruire una sorta di ponte, immaginare un percorso in cui una persona comincia a sperimentare la scrittura come piacere, sfogo, appuntamento personale, per poi aprirsi all’esterno e capire quali sono gli ipotetici passaggi, i problemi e le prospettive quando si passa dalla scrittura intima e individuale alla scrittura rivolta a un lettore. È stata una bella esperienza.

Sai, è capitato che più di una persona mi abbia esposto il desiderio di saper scrivere, per trovare il sollievo che a me dà questa passione. Credo sia un approccio improprio: ognuno deve trovare la propria passione. Io, ad esempio, non so disegnare nemmeno un lombrico, così come non ho alcuna predisposizione a suonare uno strumento musicale; amo la pittura e la musica, ma dedicarmici sarebbe frustrante… ci ho provato e ho deciso di limitarmi a guardare e ascoltare. Ti dirò, anche ascoltare musica o guardare un bel film sono tra le mie passioni, così come lavorare all’uncinetto mi calma tantissimo. Se ti metti davanti al computer imponendoti di scrivere e ti sale l’ansia, direi che è meglio tentare un’altra via per raggiungere uno stato di benessere interiore. Ripeto, penso che ognuno dovrebbe crearsi la propria comfort zone dove fa ciò che gli piace fare, senza forzature e senza troppe aspettative.

Sì, ognuno deve trovare la sua dimensione, il suo spazio. Le forme di creatività sono tantissime e funzionano se si coltiva quella che più ci si addice. Però, ognuno di noi, per trovare un’attività che assorba e dia soddisfazione deve provare, sperimentare.

Una cosa molto positiva che ho notato di te è che, pur avendo momenti di crisi in cui l’ansia diventa soverchiante, sei ambiziosa e ti impegni per raggiungere i tuoi obiettivi. Come fai?

Non so se ci riesco realmente. Forse sì. Io riesco a superare una certa mia ritrosia, o alcuni miei problemi, quando c’è una motivazione molto profonda. Per dirti, ho lavorato in ufficio e per me era un po' pesante, quando stavo male non andavo a lavorare. 
La prospettiva cambia se ciò che devo fare è qualcosa che voglio fare io, che mi sono scelta (questo è molto importante) e che, a volte, si aggancia a una dimensione che va fuori da me, che ha a che vedere col comunicare, col raggiungere gli altri, col condividere esperienze, col portare avanti una causa: quando ci sono questi elementi l’ansia la guardo in faccia, la metto da parte e mi dico che affronterò l’esperienza nonostante l’ansia. Ad esempio, all’uscita de “La rana bollita” mi è capitato di dovermi fare intervistare da un noto giornalista… ero fuori di me dall’ansia, ma non ho mai pensato “non lo faccio”: era un momento importante, si trattava di promuovere il mio libro e raggiungere un vasto pubblico; l’ho vissuto malissimo, con angoscia e ansia, ma non ho rinunciato.

Poi c’è l’insicurezza, quella blocca. È un ostacolo bello forte e spesso colpisce le persone che le cose le sanno fare. Così come c’è chi non sa fare nulla, ma ha una tale autostima che prosegue spedito in linea retta per la sua strada nonostante gli evidenti limiti personali.

A volte l’insicurezza deriva dalla consapevolezza che abbiamo dei limiti, che non sappiamo tutto, che c’è sempre qualcuno che sa fare le cose meglio di noi. E questa consapevolezza ce l’hai se sei una persona con una certa intelligenza e spirito critico. Certo, non vuol dire che tutte le persone sicure sono dei cretini. Però il connubio tra insicurezza e intelligenza, secondo me, c’è.

C’è anche la questione di una particolare sensibilità verso gli altri. A volte penso che chi, come noi, soffre di disturbi della sfera ansiosa/depressiva si preoccupi esageratamente delle conseguenze che le proprie azioni potrebbero avere sulle persone… ed ecco un altro bocco.

Non sempre, sai. Ho incontrato persone con problematiche di ansia che mi sono sembrate molto concentrate su se stesse, un po’ egoiste. È vero che, se hai affrontato un percorso, attraverso la psicoterapia o altro, e ti sei messo in discussione, diventi più sensibile verso gli altri.

Vero, bisogna aver fatto un percorso di un certo tipo.

E deve aver funzionato.

Passiamo alla richiesta di consigli su come superare i momenti di crisi. Ecco, a me manda nel pallone quando mi chiedono come fare. Per capirci, il mio stare meglio ha origine da un evento traumatico, quindi non posso consigliare a qualcuno di vivere il peggior incubo che abbia immaginato per superare le proprie paure.

Tra l’altro non è detto che funzioni: nel mio caso un trauma ha condotto a un peggioramento dei disturbi. Ognuno di noi reagisce in modo diverso agli eventi particolarmente stressanti; Sarebbe come dire “se ne uscite vivi, forse starete meglio”.

Da anni continui a mantenere un contatto, ad occuparti degli altri. Io non ne sarei capace né vorrei farlo. Temo persino che risulterei scortese. Ad esempio, una delle affermazioni che mi capita di leggere più di frequente, nei forum sul panico o nelle mail che mi inviano, è “gli altri non mi capiscono”. Ti confesso che la mia tentazione è di rispondere “perché ti dovrebbero capire?” (a volte lo faccio). È vero che avere accanto qualcuno che comprende la tua situazione e non ti stressa è importante, ma non puoi pensare che una persona che non ha mai sofferto di quel tipo di disturbo (gli attacchi di panico o, ancor di più, la depressione), possa capirti. Non può. La cosa che ritengo fondamentale è capire noi stessi e, attraverso quella comprensione, riuscire a reagire, chiedere aiuto a chi sa come intervenire. Se per guarire pretendiamo il costante supporto di chi ci sta accanto, diventiamo come bambini che per camminare hanno bisogno di qualcuno che gli tenga costantemente le mani… appena si molla la presa il bimbo cade.

Sulle relazioni con gli altri andiamo a scoperchiare il Vaso di Pandora perché anche lì c’è di tutto. È vero che ci sono famigliari o coniugi che certe problematiche non le vogliono nemmeno sentire, che pensano siano tutti capricci e che diventano respingenti, ma questi sono problemi di relazioni (io, con persone così, non ci starei in relazione, punto!). Poi ci sono le situazioni di cui parli tu: le persone non capiscono, ma non devono capire; certo, non devono nemmeno stressarti, ma sta anche a te non abusare della disponibilità degli altri... ad esempio capire che appena hai un briciolo di tachicardia il mondo non deve correre al tuo capezzale. Bisogna imparare a gestire da soli certe cose. È una questione di equilibrio. Questo è un argomento molto sensibile, su cui le persone tendono a scattare, a irritarsi molto.

Tu hai raggiunto traguardi soddisfacenti…

(La vedo perplessa). Non sei soddisfatta?

Sono contenta, ma mi sento ancora come se non avessi il mio posto nel mondo. Ho lasciato il lavoro; la strada che ho intrapreso, scrivere romanzi, mi appassiona ma è più difficile del previsto. Tuttavia, devo ammettere che faccio sempre un po' fatica ad essere pienamente soddisfatta di ciò che faccio.

Come immagini sarebbe stata la tua vita se non avessi sofferto di disturbi d’ansia? Cosa avresti ottenuto o, perché no, quali obiettivi non avresti mai raggiunto?

Domanda interessante. Sai, che non lo so.

C’è stato il periodo tra i ventidue e i trent’anni, quando molte delle persone che mi stavano accanto hanno mosso i primi passi nel lavoro, hanno impostato le loro relazioni, e io… non che non facessi queste cose, ma avevo un carico sulle spalle molto più pesante: andavo in psicoterapia, avevo delle difficoltà causate dagli attacchi di panico. Questa cosa ha influito sul mio percorso di vita, soprattutto in un momento molto formativo. Non dico di aver perso molti treni, ma in quel periodo della mia vita ero impegnata su altri fronti: cercare di capirmi, di convivere con questi disturbi che quando arrivano ti sbarellano completamente. Mentirei se dicessi che non abbia influito: quelli avrebbero potuto essere anni diversi, è un rimpianto che ho.

Però, faccio un po’ fatica a scindere, perché ho iniziato ad avere quei problemi talmente presto, sono talmente tanto connaturati con la mia persona, che non so immaginare una Marina senza l’ansia. So com’ero prima del mio attacco di panico, però è passato talmente tanto tempo che non posso dire “vorrei essere la me stessa a 19 anni” perché non lo sarei comunque.

Di certo ho guadagnato una consapevolezza che, mi rendo conto, molte persone con percorsi diversi non hanno. L’abitudine a ragionare su di me, la capacità di prendere le distanze da certe emozioni, negli altri le vedo poco, noto spesso atteggiamenti un po’ adolescenziali. Ecco, credo di aver raggiunto una certa maturità. C’è stata tanta psicoterapia e ho dovuto vedermela con la mia parte oscura in modo molto importante.

Il tuo ultimo romanzo, “La Venere di gesso” è ambientato nel 1530: un tuffo nel passato da un trampolino molto alto, direi. Come è nato?

Da una visita ai Musei Vaticani… non facile a causa del grande afflusso di gente che mette sempre ansia, ma meravigliosa. Quelle opere d’arte turbano, ma è un disagio positivo.

Credo che i nostri disturbi, con tutto il loro carico di dolore e percorsi di vita che hanno preso altre direzioni, porti però ad apprezzare di più la bellezza, ad esempio dell’arte.

Adesso mi hai fatto venire in mente una cosa: io non sono sicura che avrei scritto se non avessi sofferto d’ansia, perché è vero che fin da bambina volevo scrivere e lo facevo, però ho iniziato a scrivere con continuità dopo il primo momento di crisi. Vivevo sola e mi sono accorta che, anche se era passata la fase acuta, stavo ancora male. Sentivo che tutto era cambiato, che c’era un carico di pesantezza, angosce, paure, di sensazioni fisiche brutte che non mi abbandonavano, e quello è stato il periodo in cui ho iniziato a scrivere i miei primi racconti; mi sono resa conto che scrivere incanalava lì tutta una serie di agitazioni e ansie. Era un po’ una forma di meditazione.

Marina, grazie!


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