Il luogo della fine.


    Non è stato difficile prendere quel treno né affrontare tante ore seduta a osservare persone in intimità con telefonini, tablet e computer (i passeggeri di lingua inglese leggevano libri, restituendomi un paio di speranze circa il futuro dell'umanità).
Con i cambi mi sono sentita un po' persa: stazioni mai frequentate prima, sottopassaggi notturni e deserti, senso dell'orientamento lacunoso e un'innata imbranataggine; fortuna che sono una che chiede indicazioni, anche più di quanto sarebbe necessario e confacente a una buona educazione.

Zaino in spalla con il minimo indispensabile: acqua, bustine di thè, torcetti torinesi, ansiolitici, documenti e la Guida galattica per autostoppisti (i soldi li tengo in tasca, più per praticità che per sicurezza).
Il romanzo di Douglas Adams si muove sempre con me quando devo affrontare situazioni passibili di panico (ha girato più lui negli ospedali che il manuale di farmacologia). Mi fa compagnia, soprattutto è uno dei miei oggetti antistress: in caso di necessità, infilo la mano nello zaino e lo accarezzo; se l'ansia aumenta, inizio a leggerlo.

All'arrivo, invece, c'è stato un attimo in cui ho pensato di infilarmi nello zaino e rotolare fino all'ufficio oggetti smarriti.
La destinazione mi faceva paura, non tantissima, ma un po' sì.
Gli hospice per malati terminali sono luoghi bui anche se hanno grandi finestre che danno su giardini ben curati e pareti dipinte di colori sbarazzini. Per quanto io ami l'oscurità, la notte e il nero, quel buio mi fa procedere su gambe malferme e appoggiandomi ai muri. 
Esiste qualcosa più nero del nero.

Sono l'ultima fermata, di solito breve, prima di andarsene per sempre. Lì, ogni mattone, la mobilia, l'aria, sono impregnati di dolore, paura e rassegnazione. Lì, i sogni (materiale per me indispensabile) sono già morti prima di arrivare; ecco cosa mi crea vera angoscia: sapere che qualsiasi sogno, anche il più discreto, non si potrà più realizzare. Non è vero, l'angoscia nasce dalla consapevolezza di non avere più tempo per sognare.

Così mi sono attardata un po' all'ingresso, ho guardato le finestre piene di vita che si affacciavano su una piazzetta veramente graziosa, ho invidiato chi ci viveva, ho avvertito l'impulso di suonare a un campanello a caso e chiedere di poter salire, accomodarmi su un divano e avere una tazza d'acqua bollente per immergerci la bustina di earl grey... magari anche un cucchiaino di miele, se non era di disturbo.

 La morte è un argomento che non si presta all'allegria.
Oddio, io ci scherzo su parecchio, ma vedo che lo humor nero viene accolto con freddezza polare, se non con gesti scaramantici imbarazzanti per chi guarda. Non da tutti, qualcuno ride, ma è più facile che ciò avvenga se ci si trova nel Regno Unito.
La morte è il grande tabù, l'ultima stazione per tutti... potete toccarvi fino a consumare i didimi, ma ciò non cambia la realtà.

"Suvvia, pensi a qualcosa di bellino", mi ha urlato il gentile taxista che, evidentemente, era rimasto lì a scrutare la mia esitazione. 
Gli ho sorriso e sono entrata, più per farlo contento che per intima convinzione.
Silenzio, un silenzio irreale, nemmeno il bip di qualche monitor o un lamento. Porte aperte in cui ho evitato di guardare in quale posizione si attende la fine: forse ognuno ha la propria, forse non si sta rannicchiati, forse.

Stanza 6. Un lieve sollievo per non essermi imbattuta nella 4, che è un numero che odio. Mano nello zaino per stringere, in una botta sola, la Guida e lo Xanax.
Di tutte le cose che mi sarei aspettata, nulla era paragonabile a ciò che ho trovato: la vita.
La vita nella sua forma più alta e formativa.
In quella stanza 6 ho imparato più che nella maggior parte dei luoghi frequentati da sempre.

La vita va vissuta: l'ho sempre saputo, ma non ho mai interiorizzato il concetto fino a elevarlo a consapevolezza (e ad alzare il culo dal divano).
Il segreto per superare le ansie e la frustrazione è semplificare. E se si ama complicare, che è un mio difetto (mi ci balocco, persino), la vita non sarà mai semplice.
Che le grane di lavoro, i dolori per amori o amicizie che vanno in frantumi, le preoccupazioni per il futuro, le ansie continue, eccetera, sono prigioni. La vita è libertà, deve esserlo almeno fino a quando non si viene confinati in un corpo che ha finito il carburante.
Impegnarsi a trovare il bello ovunque e concentrarsi su quello: ad esempio una delicata orchidea in una stanza color ittero o la sinfonia della pioggia che cade sulle tegole rompendo il silenzio.
E ridere. Ridere anche della morte che, mi pare di capire abbia un senso dell'umorismo un po' contorto, tuttavia ce l'ha.
E amare, amare a prescindere.
Questa è solo parte, quella più superficiale, della lezione nell'"aula" 6; il resto ci tengo a farne una cosa solo mia.

Poi ho visto un tramonto strano e bellissimo.
Sotto le nuvole il cielo è diventato color oro, a scaglie, come se fosse esplosa la gioielleria dell'Universo.
Per un attimo, una briciola di tempo che si allontana con un soffio, ho pensato di fotografarlo: oro, grigio dei nuvoloni, nero degli alberi ormai diventati solo ombre.
Se d'improvviso fossero apparsi una giraffa, un paio di rinoceronti e un gruppetto di elefanti, avrebbero aggiunto ben poco al mio stupore.
E allora, via il telefonino. Mi è solo dispiaciuta l'immobilità di sguardi su schermi di varie dimensioni degli altri viaggiatori: si sono persi qualcosa di meraviglioso che poteva appartenergli per lungo tempo.
Tuttavia, restare lì a fissare quella silenziosa meraviglia senza rubarne un rettangolino, mi ha fatta sentire libera e persino parecchio felice.
Una felicità semplice.


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