Sono depresso! Un outing difficile.


In Italia, prima della pandemia e di tutti gli altri casini globali, almeno il 7% della popolazione aveva ricevuto una diagnosi di depressione. Con l’arrivo del Covid, la percentuale è quintuplicata.
 
Mah, mi sa di depressione
Ci sono un sacco di cose da raccontare, veramente tante.
Vi confesso che a volte decido di dimenticarmi di questo blog, e in quei momenti accade qualcosa che mi spinge a continuare.
Perché qui, magari, ridiamo e scherziamo, ma l’argomento che in teoria dovrei trattare (il condizionale è riferito alle numerose capatine fuori tema) sembra allargarsi ogni giorno… somiglia un po’ a una pandemia.
 
Stiamo vivendo uno dei periodi storici più inquietanti, pare di stare nell’edizione riveduta e corretta delle sette piaghe d’Egitto. E quando la paura è pressoché la tua casa, se da fuori arriva qualcuno ad arredarla con mobili e ninnoli altamente sgraditi, c’è poco da fare: si sta male.
Ansia e depressione diventano virali, e chi prima non sapeva cosa fosse un attacco di panico rischia di sperimentare questa nuova esperienza. Ormai crollano anche gli “indecisi”.

Poco fa, sulla bacheca di un’amica americana (ragazza intelligente e meravigliosa), ho letto questo post “Dear friends, Today I am returning to mental hospital. I don't know when I'll be back, but please wait for me. Love you all!
Che dolore! E che coraggio!
 
Ma questo pezzo nasce da un altro episodio, che tuttavia si lega alle poche righe di cui sopra.
 
Giorni fa, un collega ha voluto condividere con me il suo disagio, nel quale non mi addentrerò con particolari perché si tratta di qualcosa di molto intimo e sofferto; se ne sentirà il desiderio potrà scrivere lui un pezzo che pubblicherò con piacere.
Ascoltandolo mi sono ritrovata a riflettere su una questione che forse ritenevo irrilevante perché non mi appartiene: lui si chiedeva perché tante persone non riescano ad ammettere d’essere depresse.
 
Mi ha sottoposto articoli interessanti sull’argomento (uno dei quali tratta della depressione nei giornalisti, se ne avete voglia leggetelo) e, ad un certo punto, con quella sorta di rabbia che ben conoscono tutti coloro che soffrono di depressione, ansia e compagnia bella, ha esordito con “In questo mondo perfettino e figaccioso, perché è così difficile dire “sentite ragazzi, io ho una sofferenza psichica di un certo tipo”? Forse la gente parla con minore imbarazzo se ha un tumore o qualsiasi altra malattia”. 

Gli ho chiesto perché sentisse il bisogno di ammettere pubblicamente di soffrire di depressione e di attacchi d’ansia. Ho pensato: è necessario prendere un megafono a fare sapere a tutti che al mattino, appena sveglio, senti un elefante seduto sul petto e ti dispiace non sia realmente un pachiderma ma la più ingombrante angoscia? 
 
Abbiamo chattato un po’ sull’argomento e ho ricordato le volte in cui ho rifiutato un lavoro o l’ho accettato presentandomi dai clienti pregando di morire. Giuro, di morire. E quante volte ho sospettato di essermi strappata un legamento facciale, pur di continuare a sorridere quando invece bramavo di urlare “Cazzo, sto male! Sto talmente male che mi sdraierei su una barella implorando una flebo di En o, meglio ancora, una dose di morfina”.
 
Ma non potevo… o meglio potevo, l’ho fatto, e per un paio d’anni è stata durissima tirare avanti e riconquistare un briciolo di credibilità professionale. Eppure, qualche collega, mi confessava (sottovoce, perché anche i muri hanno orecchie) di essere stato ricoverato un paio di volte in un reparto psichiatrico, di essere fuggita nel bel mezzo di un’intervista in diretta lasciando il politico di turno solo e assai indeciso sul da farsi, di vomitare prima di entrare in redazione, di tirare avanti grazie a dosaggi da lavanda gastrica di antidepressivi, stabilizzatori dell’umore e ansiolitici.
 
Accantonata l’idea del megafono (anche se io l’ho usato, aprendo questo blog), ho meditato a fondo su quanto mi ha confidato il collega. Ho anche ritrovato un articolo scritto nel 2019: 10 motivi per non vergognarsi del panico e affini.

Qual è il tipo di pudore che scatena l’ammettere di avere attacchi d’ansia, di panico, di soffrire di bipolarismo o di vivere periodi (più o meno frequenti) in cui anche l’attività meno impegnativa risulta faticosa come scalare un monte?
Forse può essere una questione di categorie professionali: per i creativi (artisti, scrittori) la patologia mentale pare essere prerogativa di grande talento (tant’è che c’è chi si sforza d’esibire un’atavica depressione o una punta di schizofrenia per risultare più “credibile”); mentre magari medici, muratori, giornalisti, netturbini, ma anche studenti, devono mostrarsi perennemente nel pieno vigore mentale? (che fatica!).
 
E fermi tutti! Con la mia abilità a creare cerchi sempre più larghi attorno al sassolino, passo dall’ambito professionale a quello privato. Sapete, anche a livello amicale ho perso qualcuno, gente di poco conto (col senno di poi)… tuttavia, altri sono rimasti, e ne sono arrivati di nuovi. Quelle persone avevano paura della mia paura?
Può essere. 
In definitiva, parlarne con le persone che mi erano accanto è stato utilissimo per scoprire chi realmente mi voleva bene, ed è stato un momento difficile ma anche un “investimento” per il futuro (diciamo così).
 
Lavorando negli ospedali ho appreso che alcuni pazienti accedono al pronto soccorso con un attacco di panico e rifiutano questa diagnosi: “preferiscono pensare di avere un infarto o un ictus”, mi ha raccontato un’infermiera. Mi viene in mente una scena del film "Terapia e pallottole", ricordate?

I dati ci dicono anche che sono le donne a soffrire maggiormente di disturbi psicologici.
Ma è vero? O semplicemente risulta più accettabile la “fragilità” nel sesso che ancora qualcuno definisce “debole”?
Perché da questa scrivania, osservo. Vedo le statistiche di questo blog e scopro che oltre il 60% dei lettori sono uomini. E cosa ci fanno qui se l’argomento non li tocca? 
Per un uomo è più difficile confessare d’essere depresso o particolarmente ansioso?
 
Penso che, a volte, l’errore di fondo sia confondere la sensibilità con la gracilità caratteriale. Sarebbe un errore bello grosso: la dote forse più lodevole e invidiabile paragonata con l’incapacità di prendere decisioni, agire e reagire, eccetera. Da donna, preferisco asciugare lacrime di tristezza che sudore da palestra; ovviamente non parlo a nome di tutto il genere femminile e, altrettanto ovviamente, preferirei non dover asciugare nulla.
 
Ci si vergogna di una malattia (“disturbo” per gli psichiatri; pure loro preferiscono andarci cauti, nemmeno fossero medici dell’INPS). Perché? Sconosciuti ti mostrano le cicatrici dell’intervento al fegato mentre amici, famigliari, persone con cui lavori tengono accuratamente nascoste quelle della mente. Qual è la differenza?
 
Articolo troppo lungo, lo so. Mi preme solo scrivere di un altro fenomeno, quello che mi turba di più: genitori che rifiutano di riconoscere i disturbi psicologici nei figli. Lì pare ci sia un’omertà raccapricciante, perché “i figli devono essere perfetti”… soprattutto agli occhi degli altri. Così, si ritardano le cure e con esse la possibilità di condurre una vita il più possibile serena e senza impedimenti. Si ignorano, magari con fatica, sintomi che, a lungo andare, diventano invalidanti.
 
Che la gente voglia parlare o meno dei propri problemi mentali non è così rilevante, certo può fare bene a se stessi o ad altri che si aggirano con un elefante sul petto, ma ha poca importanza se confrontato a chi finisce per far sentire diverso, meno capace, troppo fragile, un bambino o un adolescente. Loro non rischiano di perdere il lavoro, temono solo di perdere la faccia (che è una bruttissima faccia, aggiungerei). Ecco, quei genitori devono proprio vergognarsi… loro ne hanno facoltà.
 

 

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