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Visualizzazione dei post da aprile, 2018

Sulla scrivania

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C'è una scatola di cartone sulla mia scrivania. Una scatola ingombrante. Dovrei ritirarla, magari in un cassetto. Dentro la scatola c'è un taccuino rilegato in pelle, con un laccetto che gli gira intorno per tenerlo chiuso. E' un regalo, io mai acquisterei un oggetto prodotto con la pelle di un animale. Tuttavia, appena ho aperto quella scatola mi sono innamorata del suo contenuto. In copertina, in basso, come una leggera incisione, c'è la rosa dei venti.  Un semplice diagramma che mi affascina da sempre. Sulla scatola, c'è scritto W anderings (peregrinazioni), che evidentemente è il marchio. Le pagine non sono proprio bianche, tendono al color seppia. E' un taccuino impegnativo, non ci si può certo scrivere la prima cosa che viene in mente. E' come un vestito elegante che nessuno si sognerebbe di indossare per andare al mercato. Ogni volta che tento di riordinare la scrivania, di fare un po' di spazio per gli oggetti

L'ansia, la scrittura e l'affollamento delle trame

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Esco un attimo dal silenzio della terapia intensiva dove attualmente è ricoverato il mio manoscritto.  Sembrava un banale malore stilistico, un calo di virgole. Poi è sopraggiunta un'emorragia di punti con conseguente crollo grammaticale. Parametri vitali ridotti a un lumicino. Non è così grave, poi si riprenderà e tornerà a saltellare pieno d'insensata euforia. Non c'è da preoccuparsi. Tuttavia, nell'attesa, il livello dell'ansia sale; tocca mettere i braccioli e fare il morto a filo d'acqua, cercando di rilassare tutti i muscoli altrimenti si affonda. E, concorderete con me, rilassare la muscolatura durante un attacco d'ansia è cosa assai difficile, si va giù come un sasso. Nel corso degli anni di panico, che mi hanno consentito di acquisire una preziosa esperienza nel campo (un dottorato, diciamo), ho appurato che tra le pratiche antistress, la scrittura è pari alla meditazione (e più divertente). Non parlo di mettere su carta la propri

Non lasciarmi (il romanzo)

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Sono le due di notte e nonostante le eccellenti premesse della giornata, ossia una stanchezza eccezionale, sto scrivendo. Eppure, fatto insolito, alle dieci e mezza ero già nel letto con la palpebra pesante e lo sbadiglio rigoglioso. Il guaio è che mi sono imposta di finire un romanzo che stavo centellinando da qualche giorno. Per quanto io ami la letteratura, non ritengo possibile che un romanzo ti cambi la vita. Ma l'umore sì. Ci sono diverse categorie di libri, secondo la mia personale visione. Qui ne elenco solo alcune per non rubarvi troppo tempo (cosa che sto già facendo, ma come sempre siete liberi di andarvene quando vi pare): quelli che insinuano l'urgenza di reperire l'indirizzo dell'autore per richiedere l'immediato rimborso della spesa sostenuta per acquistare il volume in questione (in alcuni casi ci ho pensato seriamente, poi ho ritenuto ulteriormente lesivo accollarmi anche la spesa del francobollo); quelli che danno una svolta positiva a

Quello che il cervello non dice

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La scorsa notte ho letto che il cervello parla con se stesso. Si trattava di un saggio scientifico che io, ovviamente, ho interpretato alla mia maniera per nulla scientifica e parecchio fantasiosa. Quando sono arrivata al punto in questione, cioè che il cervello parla con se stesso, mi sono fermata a riflettere. Che avrà mai da dirsi? Mi sono chiesta, perché in realtà mi pare che con me sia parecchio taciturno o, quantomeno, non molto comprensibile nelle sue farneticazioni. Così, non ho finito il capitolo (tanto, a dirla tutta, faticavo a comprendere almeno i tre quarti di quanto si asseriva in quelle pagine); ho spento la luce, mi sono acquattata zitta zitta e ho preso un falso atteggiamento indifferente.  Come una che passa lì per caso, e indossa cuffiette con musica a palla, ho inizi ato l'appostamento. Per un po' l'ho sentito spettegolare e sparare giudizi sulla mia condotta. La tentazione di alzarmi e obiettare era forte, ma ho fatto bene a tratte

I pagamenti e la teoria dell'imbarazzo

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Che il mio lavoro consista prevalentemente nello scrivere testi di divulgazione medica, mi pare di averlo già detto (abbiate pazienza, ma raramente ho memoria di quello che scrivo; con la prova orale me la cavo meglio). Che io sia ipocondriaca è cosa nota. Che faccia una certa fatica a mantenere un contegno serio e decoroso lo si evince in un amen. Sommando i tre elementi in nostro possesso, e analizzandoli secondo la filosofia di Sherlock Holmes (" Una volta eliminato l'impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev'essere la verità"), la verità è che soffro lavorando. Lo so, pochissimi individui (che secondo me hanno problemi grossi), si divertono mentre portano avanti il loro mestiere: giorno dopo giorno, sempre la stessa minestra, colleghi subdoli come crotali (i quali, comunque, prima di mordere hanno l'onestà di lanciare avvisi acustici), capi ansiogeni, panorama spento. Come dico sempre, la vita non è una passeggiata per nessuno. E io