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L'ansia digitale.

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       Ieri sono salita su un pullman di quelli che aspetti mezz'ora e poi entri in un girone dell'inferno dove se ti muovi urti qualcuno, ma tanto non c'è possibilità di muoversi (una preoccupazione in meno). Fino a non molto tempo fa mi sarei sentita male solo a immaginare una scena così. Ricordo di aver già provato una simile esperienza, seppur con meno calca, e di essere scesa alla fermata successiva con la convinzione di essere vittima di un'embolia polmonare. Certo, ho patito le urla di alcuni ragazzini, il caldo soffocante, la gomitata tra fegato e stomaco ricevuta da una signora che cercava di decidere con me, senza il mio consenso, se trascorrere la serata in un locale latino-americano o starsene a casa; tuttavia, sono scesa alla mia fermata, quella giusta, e mi sono goduta il tragitto a piedi nelle vie già buie e deserte. Ho festeggiato... senza ballare la rumba: a me basta un pacchetto di patatine e un bel film in TV. Ho pensato che ormai sto bene, benché mi

Cose di cervello.

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       Mi scappa un momento di divulgazione scientifica, se volete potete assentarvi per qualche minuto. Inizio con una brutta notizia: i gamberi soffrono d'ansia , quindi mi tocca eliminare anche loro dalla dieta che già esclude tutti gli animali di cielo e di terra (più il polipo). Qui si va avanti a insalate, sperando che non venga fuori che la rucola è depressa o il pomodoro è empatico... non siamo lontani, fidatevi di chi ha intervistato un tizio che registra le reazioni delle piante : svengono se ci avviciniamo con una forbice, si lamentano, intuiscono le nostre intenzioni (non ci ho dormito per una notte). Ma la vera notizia, letta poco fa per prendermi una pausa dalle brutture del mondo e dall'idea di diventare cannibale, riguarda la strabiliante mappatura del cervello di un moscerino della frutta (che temo di aver mangiato per sbaglio). Uno sproposito di Neuroscienziati di varie università hanno preso il cervello della povera bestiola, lo hanno tagliato in settemila fe

La guerriera ipocondriaca

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  Mi hanno sempre insegnato ad arrangiarmi da sola; è una lezione che ho imparato bene, e ne sono fiera. Non sembra ma sono in gamba, tanto che sto facendo lavoretti di ristrutturazione con successo e uso il seghetto alternativo (di cui amo il nome ) e altri utensili non alla portata di tutti. Tuttavia, devo ammettere di essere incappata in qualche incidente, perlopiù a causa della scarsa qualità dei chiodi cinesi, confermata da loro stessi (i cinesi) nel proverbio "di un buon metallo non si fa un chiodo, di un buon uomo non si fa un soldato" (che meraviglia!). Per capirci, senza l’interferenza asiatica, non sarebbe accaduto nulla di quanto ora vi elenco: un frammento di chiodo mi si è artatamente piantato sul tallone di un piede (l’ho estratto lacrimando un po'), mentre nell'alluce dell'altro piede si è infilata una scheggia di legno (quella è ancora lì e si zoppica un tantino). Mi è scivolata la taglierina... c'è da dire che tentavo di aprire una confezione

Ansia, passioni, percorsi di vita…: chiacchierata con Marina Innorta.

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  L’idea era quella dell’intervista: domande brevi, risposte concise, una cosuccia facile da leggere e da scrivere. Tuttavia, appena vista la mia interlocutrice, ho intuito che la nostra sarebbe stata una conversazione più lunga e articolata del previsto. Marina Innorta, scrittrice e blogger ( My Way Blog ), di cui è appena uscito l’ultimo romanzo “La Venere di gesso”, è una donna molto piacevole e profonda, ha un modo singolarmente pacato di raccontarsi e raccontare; infine, mi è parsa di una sincerità sorprendente, almeno per me che sono abituata a “lavorare” con soggetti talmente concentrati nel risultare interessanti da bluffare un po’ (o tanto) sulle loro verità. Bando alle ciance, ora vi riporto buona parte della nostra conversazione. So che è molto lunga (pur avendo tagliato un bel po’), ma il bello di questi luoghi virtuali, dove nessuno ci vede, è che possiamo andarcene senza imbarazzo quando ci pare.   Marina, ti ho conosciuta grazie al tuo libro “La rana bollita”, di cui scr

L'ipocrisia dell'assenza di giudizio.

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  “Io non giudico mai nessuno” ... quante volte si sente! Quanta ipocrisia palesa. Nel momento in cui lo dici, mi stai giudicando… presumibilmente come una persona giudicante, quindi brutta. Ed è vero! Io giudico, giudico eccome. Giudico al primo sguardo, giudico dalla postura e dal tono della voce, dall’odore, eccetera. Se non lo facessi non potrei provare un sentimento, di qualsiasi tipo, verso la persona, l'evento, l'oggetto che ho davanti. Per qualche motivo, all’atto del giudicare si dà quasi sempre un’accezione negativa, eppure l’etimologia parla chiaro: “ dal latino judĭcare, derivazione di judex = giudice . Judex deriva dall'unione di ius + decs (dicere) cioè colui che dice, che si pronuncia sul diritto. In senso più ampio, giudicare significa valutare, stimare, esprimere un'opinione ”. E il giudice è imparziale (o almeno dovrebbe esserlo), e tutti noi partiamo da una posizione imparziale (o almeno dovremmo). Veniamo giudicati dalla nascita (sano, bell

Sul rancore, l'amore, l'assenza, la consapevolezza del tempo.

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“Il tempo ripara tutto” : me lo diceva spesso mia nonna; con lei il tempo non è stato clemente e io non ho mai creduto a questa, come a molte altre, perle di saggezza. Ho sempre elaborato teorie alternative, snaturato il significato di proverbi e di altri consigli derivanti dall’atavica esperienza popolare. Così, nel tempo, chi mi ha dato motivo d’astio, l’astio se l’è tenuto. “Dimentico ma non perdono”: ecco un altro stravolgimento, una semplice anastrofe che suona quasi come un lapsus, mentre delinea un preciso bug di programma mentale. Il rancore è un sentimento esecrabile, ma come accade con tutti i sentimenti è assai difficile, se non impossibile, ragionarci e ridurlo a più miti consigli. Sono una persona rancorosa che, peraltro sfoga apertamente il proprio rancore, perché tenerlo dentro produce ulcere gastroduodenali, ipertensione e, soprattutto, ansia e insonnia. Sputandolo fuori perde intensità e poi accade sempre qualcosa che lo fiacca, lasciandolo lì a languire: si scorg

Il decalogo del Sonnologo.

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  D a 7 a 5, poi a scalare fino a due o tre ore al giorno di sonno; mi è capitato di trascorrere 48 ore consecutive di veglia, posto che lo stato catatonico possa essere definito “veglia”. Tutto questo per un paio d’anni.   Ho provato l’autoipnosi, lunghe passeggiate notturne, rimedi erboristici dal sapore gradevole quanto masticare guano di piccione, suoni della natura provenienti dal comodino, visione notturna di partite di golf e altre strategie più o meno (o per nulla) approvate dal mondo medico e dal buonsenso comune.    Niente! Certo, quando mi era concesso dormire di giorno andava a meraviglia, ma la quotidianità è satura di regole comportamentali aggirabili esclusivamente da chi se lo può permettere, e io non posso. Sull’insonnia ho già scritto varie volte ( QUI potete leggere un pezzo in cui, circa un anno fa, promettevo di ricominciare a dormire), ad un certo punto mi ero persuasa ad accettare questo problemuccio, fino a quando l’organismo ha iniziato a scatenare una serie d